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GUERRA E RISORSE ENERGETICHE: PERCHE’ L’ITALIA NON HA BISOGNO DI NUOVE INFRASTRUTTURE NEL SETTORE DEL GAS

Ci dicono che, a causa della guerra in Ucraina, siamo alla canna del gas, letteralmente. Intanto, nei primi 6 mesi di quest’anno, secondo le stime del Ministero della Transizione ecologica – Dipartimento Energia – DGIS, l’Italia ha esportato più di un miliardo e ottocento milioni di metri cubi di metano; si tratta di un record assoluto…
Nel primo semestre la Snam ha avuto un utile netto di 646 milioni di euro (+ 1,7% rispetto al primo semestre 2021), mentre ha fatto registrare un vero e proprio boom l’utile netto dell’ENI, sempre nel primo semestre: 7,398 miliardi di euro, con un incremento del 600% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando era stato di 1,103 miliardi. E’ incredibile: ci assillano con il rischio di rimanere senza gas e nello stesso tempo lo vendiamo ad altri Paesi!
La guerra e la conseguente decisione di sganciarsi dalla dipendenza dalla Russia è una manna dal cielo per le grandi multinazionali del gas che, con il pieno sostegno dei governi che le foraggiano, hanno colto al volo l’occasione per rilanciare parecchi progetti per nuove infrastrutture nel settore. Con il pretesto della guerra, il governo uscente, in tutta fretta, ha portato a termine il procedimento autorizzativo per il metanodotto Sulmona – Foligno, ha deciso di installare due nuovi rigassificatori a Piombino e a Ravenna e ha dato il via libera a maggiori trivellazioni al fine di ottenere il raddoppio della produzione nazionale di gas.
Altri rigassificatori, però, sono già stati autorizzati o sono in corso di autorizzazione: a Porto Empedocle in Sicilia, a Gioia Tauro in Calabria, a Falconara Marittima nelle Marche e in Sardegna a Portovesme (Carbonia – Iglesias), a Porto Torres (Sassari) e a Oristano. E ancora: sono tornati in auge anche i metanodotti, come il raddoppio del TAP, l’Eastmed – Igi Poseidon da Israele ad Otranto e un gasdotto del tutto inedito dalla Spagna.

LEGGI IL FOCUS COMPLETO REDATTO DALLA CAMPAGNA PER IL CLIMA FUORI DAL FOSSILE IN QUESTI MESI ESTIVI DURANTE L’OSTUNI CLIMATE CAMP DI AGOSTO E AL FIANCO DELLE LOTTE TERRITORIALI CONTRO I PROGETTI DI RIGASSIFICATORI E DEPOSITI GNL…

#Insorgiamo e Convergiamo tutt* il 26 marzo con la Gkn a Firenze

In questi mesi in tante piazze, cortei, assemblee, abbiamo parteggiato con la lotta dei lavoratori e le lavoratrici della GKN di Campo Bisenzio.
Ci siamo sentiti parte complice della loro presa di parola contro le delocalizzazioni, per lo sciopero generale e generalizzato, nella messa in discussione dei rapporti di forza nel mondo del lavoro, così come abbiamo avvertito la loro presenza e sintonia verso quelle movimentazioni che in tanti e tante abbiamo messo in moto intorno a questa sempre più contraddittoria e ambigua transizione ecologica, che assume forme e contenuti diversi, a seconda che sia imposta dall’alto o insorga dal basso.

Il sentirsi dalla stessa parte, il ritrovarsi nelle stesse piazze, il combattere da diversi fronti quelli che sempre più spesso si disvelano come gli stessi nemici, sono tutti segnali che ci indicano un percorso, certo ancora lungo, ma già vivo ed attivo in forme nuove che oltrepassano le agende imposte da altri.

Contestualmente al ritorno della guerra in seno all’Europa è passato nel dimenticatoio il nuovo rapporto dell’IPCC sui cambiamenti climatici dello scorso 28 febbraio, successivo a quello ben più noto del 2018, secondo il quale per contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1.5° sarebbe necessario ridurre le emissioni di gas CO2 e di gas climalteranti del 55% entro il 2030 e del 100% entro il 2050. La crisi climatica non è più solo un presagio futuribile, ma il nostro presente che ci impone quanto prima strategie nel contempo di adattamento a tutela dei bisogni sociali e di costruzione oggi dei percorsi di uscita dai modelli economici che quella crisi l’hanno prodotta. Il futuro prossimo dell’Europa, specie quella meridionale, cioè casa nostra, sarà caratterizzato da siccità e ondate di calore, intensità di inondazioni e aumento del livello del mare, progressiva scarsità delle risorse idriche, quell’acqua bene comune ancora e continuamente a rischio grazie alla nuova ondata di privatizzazioni del governo Draghi.
Crisi climatica, pandemia globale, e ora la guerra, hanno accelerato e precipitato processi di digitalizzazione dell’esistenza e di forme di controllo sempre più poliziesche, e allo stesso tempo di smisurata concentrazione di ricchezze finanziarie e produzione di povertà diffuse.
La guerra è sempre la continuazione della politica con altri mezzi, i più sporchi e ipocriti: qui cade ogni vincolo economico di bilancio, ora si silenzia ogni spazio di mediazione e conflitto.
Di fronte allo stato di emergenza, sono gli stessi responsabili della crisi a fornire le soluzioni: aumento delle spese militari e corsa agli armamenti, riapertura delle centrali a carbone e nuove trivellazioni, nucleare a fissione che tanto anche l’unione europea ci ha detto che è green.

La chiamata a convergere il 26 marzo, oggi, in questo contesto, amplifica il suo valore, e lo fa al rialzo, senza nulla togliere alle innumerevoli ragioni che lo hanno voluto e prefigurato, e facendo sintesi con il dato di eccezionalità dello scenario di guerra in cui ci vogliono impantanare.

Convergere significa mettere in comune come l’arma delle delocalizzazioni massimizzi i profitti d’impresa abbassando il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori, globalizzi i capitali e localizzi la precarietà, e come egualmente eluda gli obblighi sull’abbattimento delle emissioni di CO2 creando nuovi rapporti coloniali, di sfruttamento, nuove ridefinizioni mondiali del mercato del lavoro, della produzione, delle esportazioni, ancora più inquinanti ed energivore.

Convergere verso un cambiamento radicale delle politiche energetiche, della mobilità, della riconversione industriale e della bonifica dei territori inquinati. Interrogativi all’ordine del giorno, sfide sulle quali misurarci. Per rompere il ricatto dei licenziamenti e delle delocalizzazioni, per la garanzia di un reddito diretto e indiretto, specie nell’attuale contesto di crisi economica che sta colpendo duramente le fasce sociali più deboli, con un grave e repentino innalzamento dei prezzi delle materie prime, dei beni di prima necessità, delle bollette e del costo della vita.
Convergere verso un’autentica transizione ecologica che passi attraverso il cambiamento dei modi di produzione, oltre e più che degli stili di vita. Oltre il consumo consapevole, le pratiche di economia stanziale e di prossimità, le forme di risparmio e di filiere corte energetiche, la microgenerazione diffusa da energie rinnovabili, vanno di pari passo aggredite le questioni del come del cosa del quanto produciamo, degli spostamenti dei confini delle nuove forme di accumulazione che privatizzano e riducono a merce la natura, il vivente, il sapere e la conoscenza, i beni comuni.

Convergere significa ancora che il muro divisorio della storica strumentalizzazione del presunto conflitto ambiente/lavoro, sempre aizzata da chi ben sappiamo in momenti nevralgici di decisione politica e con conseguenze spesso nefaste per la difesa dell’ambiente come del lavoro, oggi manifesta sempre più falle.
Convergere per continuare ad allargare queste crepe, intrecciare le mobilitazioni, stringere ancora di più i nodi tra lotte operaie e battaglie territoriali, tra saperi scientifici, tecnici e giuridici ed esperienze di democrazia e partecipazione diretta e dal basso. Oggi si diffondono sempre di più nuove consapevolezze e sperimentazioni che individuano nel legame tra garanzia del reddito e del lavoro, ed una reale e giusta transizione ecologica un passaggio ineludibile.


Il 26 marzo saremo a Firenze per convergere con il nostro pezzo di storia, con le nostre convinzioni, con i volti e i corpi delle attiviste e degli attivisti provenienti dalla lunga cartografia di questo paese che sacrifica intere comunità, pezzi di territorio, vite pulsanti, sull’altare del profitto dell’economia da fonti fossili, tossiche, nocive.

Campagna Per il clima fuori dal fossile 8 marzo ’22

Per la giustizia climatica! Per la buona occupazione!

Analisi e proposte della campagna nazionale  “Per il Clima, Fuori dal Fossile”

Nell’acceso e ormai attualissimo dibattito globale sulle vicende ambientali, ecologiche e climatiche, la questione sociale, e con essa quella occupazionale, trova sempre più spazio e si interconnette sempre più spesso a vertenze e rivendicazioni storicamente lontane dal mondo del lavoro e del sindacato. Tutto questo, per fortuna, appare – ormai con una certa frequenza – non più come una rara eccezione, ma come un’acquisizione abbastanza diffusa, in grado di far avanzare le lotte, radicarle sui territori e, soprattutto, renderle più forti rispetto al recente passato.

Il precipitare della crisi climatica apre crepe sempre più profonde in quella parete divisoria che, per lungo tempo, è stata strumentalmente interposta tra la sfera dei bisogni connessi al reddito ed al lavoro e quella dei diritto alla salute e alla tutela ambientale. Oggi si diffondono sempre di più nuove consapevolezze e sperimentazioni che individuano nel legame tra garanzia del reddito e del lavoro, ed una reale e giusta transizione ecologica un passaggio importantissimo e assolutamente ineludibile. L’uscita dal fossile ed un cambiamento radicale delle politiche eenergetiche stanno investendo inevitabilmente il comparto della produzione: per questo rompere il ricatto dei licenziamenti e delle delocalizzazioni, per la garanzia di un reddito diretto e indiretto, specie nell’attuale contesto di crisi economica che sta colpendo duramente le fasce sociali con un grave e repentino innalzamento dei prezzidelle bollette e, più in generale, del costo della vita, è assolutamente fondamentale.

Così, se da una parte i documenti dell’IPCC (il foro scientifico sul clima delle Nazioni Unite) consegnano al mondo un quadro sul cambiamento climatico impietoso, che chiede a gran voce alle classi dirigenti globali trasformazioni radicali in tutti i settori dell’economia, e che non lascia spazio a nessun tipo di fraintendimento, dall’altra, l’ultimo rapporto IRENA (International Renewable Energy Agency) ci conferma che il totale degli occupati nel settore delle energie rinnovabili sale costantemente da anni ed è già passato dai 7,3 milioni del 2012 ai 12 milioni del 2020. Numeri importanti, inequivocabili e che dobbiamo essere in grado di analizzare anche e soprattutto in relazione alle grandi opportunità che avremo di fronte da qui ai prossimi decenni.

Ciò premesso, pur tenendo in considerazione tutte le contraddizioni e tutti i rischi insiti nel processo di transizione ecologica avviato o da avviare a livello locale, nazionale e mondiale, il percorso che i movimenti per il clima avranno di fronte già nei prossimi anni per tenere unite le lotte non potrà più prescindere da alcuni punti essenziali:

1) analisi e proposte relative al processo di trasformazione ecologica del settore della produzione energetica;

2) analisi e proposte connesse al processo di trasformazione ecologica del settore automobilistico e dei trasporti;

3) riconversione ecologica dei siti industriali da pianificare coinvolgendo attivamente tutte le organizzazioni sindacali ed operaie interessate da tali processi;

4) dismissione e bonifica degli impianti e delle aree inquinate, specie dei SIN (Siti di Interesse Nazionale)  da realizzare ascoltando i pareri e le proposte della cittadinanza attiva anche grazie alla convocazione di apposite assemblee pubbliche, consigli comunali aperti ecc.

Rispetto ad alcuni punti riportati in questa breve e parziale lista di priorità, consideriamo assolutamente emblematica la vicenda dello stabilimento ex GKN di Campi Bisenzio, già proprietà del fondo finanziario Melrose il quale, prima di cedere il sito alla QF dell’imprenditore Francesco Borgomeo, tra le motivazioni utilizzate per giustificare la procedura di licenziamento destinata a 422 lavoratori e lavoratrici e funzionale alla delocalizzazione della produzione, ha usato anche quella della “transizione ecologica” e della necessaria ristrutturazione del settore automotive. In poche parole, dopo aver sussunto una delle più note rivendicazioni dei movimenti globali per il clima, il fondo Melrose ha semplicemente fatto quello che storicamente fanno gli speculatori: ha difeso i suoi interessi licenziando e trasferendo altrove il suo impianto senza che nessuna legge dello Stato italiano glielo impedisse.

Eppure, mentre i signori delle delocalizzazioni si lamentavano per l’irrigidimento di alcuni vincoli dovuti alle nuove politiche ambientali, proprio nello stabilimento di Campi Bisenzio, dove si producono principalmente semiassi, le maestranze erano già pronte a realizzare nuove componenti necessarie a far funzionare veicoli elettrici. Ed esempi analoghi e altrettanto virtuosi a quelli dell’ex GKN si registrano da mesi anche a Civitavecchia dove, sia gli operai metalmeccanici dell’indotto della centrale Enel TVN, sia quelli del molo carbonifero connesso allo stesso impianto, stanno chiedendo a gran voce di avviare e di essere coinvolti in quei processi di trasformazione industriale che, non solo contribuirebbero ad azzerare le emissioni inquinanti e climalteranti di una delle centrali termoelettriche più grandi d’Europa, ma avrebbero,  già nell’immediato, ricadute eccellenti anche sul fronte occupazionale. I lavoratori di Civitavecchia indicano da tempo una strada diversa rispetto a quella che governi ed industriali vorrebbero percorrere; infatti, come è noto da tempo, le nuove centrali a gas non darebbero alcuna garanzia occupazionale, mentre la creazione di un indotto collegato ad un impianto eolico offshore galleggiante e l’ambientalizzazione del porto cittadino sarebbero occasioni importanti per abbattere l’inquinamento e creare buona occupazione. Allo stesso modo, va anche menzionato il progetto di “parco energetico marino ibrido” denominato Agnes, presentato da Saipem  e Quint’x, che si collocherebbe a circa 19 km dalle coste di Ravenna, sistema integrato dove a produrre energia sarebbero pannelli solari galleggianti e 65 pale eoliche a fondazione fissa (per un totale di 620 MW di potenza), con la possibilità di sfruttare l’energia per alimentare elettrolizzatori per produrre idrogeno verde da realizzare su piattaforme petrolifere dismesse.  Si tratta di potenzialità sulle quali è giusto sviluppare l’approfondimento  e l’esame critico, prendendo in considerazione tutti  i vari aspetti. Differente e purtroppo ineluttabilmente meno virtuosa  è invece in questo senso l’esperienza del siderurgico di Taranto, dove operai e cittadini vivono la contraddizione di una fabbrica in cui le rivendicazioni sindacali convergono troppo spesso,  e su punti fondamentali, con le direttive aziendali, laddove la continuità produttiva è tutelata a scapito della sicurezza sul luogo di lavoro, della stessa occupazione e delle ricadute ambientali, sanitarie e sociali  nel loro complesso.L’accanimento legislativo, la mole spropositata di investimenti finora in perdita, come hanno dimostrato gli studi dei comitati di lotta e confermati nell’ultimo  rapporto Eurispes, cambierebbero le sorti di tutti gli aspetti sopra citati se solo fossero diretti alla chiusura di uno stabilimento obsoleto e quindi esposto ad ulteriore rischio di incidente rilevante, al suo smantellamento e alla bonifica di un territorio troppo compromesso per provare a replicare i percorsi di riconversione già avviati in contesti più piccoli.


Questi esempi concreti, in ogni caso, testimoniano ancora una volta quanto la vecchia contrapposizione tra il mondo operaio e le battaglie ecologiste non sia più così radicale e radicata. Tuttavia, per far sì che certe realtà possano finalmente camminare insieme o siano addirittura in grado di elaborare piattaforme rivendicative congiunte, c’è bisogno di ancora più coraggio e ancora più perseveranza. In particolare, come attivisti e attiviste per il clima non possiamo più permetterci di schivare certe questioni, di eludere certe domande o, peggio ancora, reiterare gli errori del passato. Non possiamo perciò più permetterci di affrontare il dibattito sulla transizione ecologica senza immaginare processi di radicale trasformazione industriale o tergiversando sulla spinosa questione occupazionale.

Contestualmente alla nostra assemblea generale del 20-21 novembre 2021, ci stiamo interrogando sulle esperienze di ricomposizione nelle vertenze su lavoro e reddito, salute e ambiente.

Quali proposte industriali realmente green e clean siamo in grado di mettere in campo oggi nel rispetto delle varie specificità territoriale e del diritto al reddito? In che modo si intendono valorizzare le esperienze di qui territori dove vertenze operaie e battaglie contro l’inquinamento hanno già prodotto documenti ed iniziative significative?

Per rispondere a queste domande è assolutamente indispensabile stringere ancora di più i nodi tra lotte operaie e battaglie territoriali, tra saperi scientifici, tecnici e giuridici ed esperienze di democrazia e partecipazione diretta e dal basso. Non possiamo più limitarci ad inseguire l’agenda dei grandi vertici internazionali o mobilitarci periodicamente attorno a grandi manifestazioni nazionali che, per quanto riuscite e molto partecipate, non riescono poi ad andare oltre un singolo appuntamento di piazza. Occorre invece lanciare un percorso condiviso a lungo termine, che sia in grado di crescere nell’analisi e nella proposta. Un percorso collettivo che sia quindi capace di smascherare e respingere ogni tentativo di greenwashing mentre prova contemporaneamente ad elaborare e sostenere piani industriali credibili, tecnologicamente percorribili e soprattutto a zero emissioni.
Può quindi l’attivismo per il clima essere incisivo anche nei processi di rilancio del settore manifatturiero, metalmeccanico e complessivamente industriale del nostro Paese? Si può uscire dall’egemonia fossile proponendo da subito percorsi di trasformazione industriale e rigenerazione territoriale capaci di generare buona occupazione?  E ancora, come governare dal basso tali processi di transizione senza lasciare indietro nessuno?

Rispondere a queste domande non è e non sarà facile.Proprio per questo riteniamo che l’avviodi un dibattito serrato tra movimenti per il clima e mondo del lavoro non sia più procrastinabile. Consideriamo inoltre necessario un coinvolgimento, sia collaborativo che conflittuale, dei poteri locali, i quali, secondo noi, dovranno necessariamente essere fra i principali “motori” della transizione assumendosi responsabilità e promuovendo molteplici iniziative sui vari territori.


La campagna nazionale “Per il Clima Fuori dal Fossile” invita quindi tutte e tutti ad aprire un percorso di ricomposizione sociale e culturale  che promuova,  qui ed ora, un luogo assembleare di confrontoinsieme a tutte quelle realtà di lavoratori e lavoratrici che intendono mettere in discussione le vecchie forme del lavoro e della produzione, dentro la transizione ecologica, nel locale e nel globale, e difendere così il proprio diritto alla continuità del reddito. Un simile contenitore sperimentale potrebbe rafforzare ed estendere le esperienze pilota in lotta oltre quelle che sono di fatto specificità vertenziali e territoriali e,  allo stesso tempo, incoraggiare quelle realtà più periferiche e meno visibili, ma egualmente sensibili e soggette alle medesime condizionie contraddizioni.

L’avvio di un dibattito serrato tra movimenti per il clima e del mondo del lavoro non è più procrastinabile. È ora di fare un primo passo in questa direzione. È finalmente ora di camminare insieme.

Gennaio, 2022

Per il Clima, Fuori dal Fossile

Autorganizzazione energetica dal basso…. iniziamo dai territori !

Siamo comunità territoriali, comitati, realtà di lotta e cittadini che si battono per il clima, la difesa degli ecosistemi e che lotta per uscire dal fossile, causa prima di devastazioni ed inquinamenti climalteranti e nociva per la salute.

Siamo coscienti che non basta solo opporsi al sistema per ottenere dei risultati concreti che, invece, sono venuti quando ai NO ben ponderati abbiamo aggiunto anche proposte alternative e praticabili.L’alterazione climatica repentina e disastrosa in cui siamo immersi ha aggravato le devastazioni ed i danni alla salute ed all’ambiente e ci obbliga a dare delle risposte alternative non solo territoriali ma globali e capaci di incidere qui ed ora.Il tema dell’approvvigionamento, produzione, consumo, gestione dell’energia diventa sempre più centrale ed è il terreno di scontro economico e politico.

Siamo coscienti che non sarà facile uscire dall’energia e della economia fossile senza superare il sistema capitalistico ma siamo altrettanto convinti che possiamo agire già da ora per costruire spazi, comunità, energie alternative e dal basso che ci rendano più indipendenti dalla economia fossile ed accentrata e risparmiare.

Un bene per la tasca, per il clima e l’ambiente e per la democrazia diretta!

L’IPCC del 2018 ci indica che per contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1.5° è necessario ridurre le emissioni di gas CO2 e di gas climalteranti del 55% entro il 2030 e del 100% entro il 2050.

Per quanto riguarda l’Italia, le politiche energetiche governativecontinuano a favorire le fonti fossili, con la costruzione di nuovi gasdotti, l’autorizzazione a nuove trivellazioni e miliardi di incentivi o sgravi fiscali erogati ogni anno in favore di filiere energivore e inquinanti.

In questa situazione è necessario che nei territori ed a livello domestico si affermino velocemente e in modo sempre più massiccio scelte alternative che puntino sulla riduzione dei consumi, l’efficientamento energetico, la produzione di energia da fonti rinnovabili che non necessitano di combustione.

Cosa puoi fare tu, cosa può fare ognuno di noi?

Secondo i dati ufficiali forniti dagli enti istituzionali, in Italia circa quasi il 70% dell’energia totale consumata è destinata alle famiglie di cui il 40% per usi civili (riscaldamento, illuminazione, ecc…) e il resto per i trasporti privati.Il consumo domestico di energia è prevalentemente dovuto al riscaldamento o al raffrescamento, in misura minore dalla illuminazione e dagli elettrodomestici. Ecco alcune indicazioni pratiche, efficaci e di facile applicazione.

  1. Buone pratiche per il risparmio energetico
  2. In inverno abbassa il termostato a 18-19°C, in estate evita il più possibile di utilizzare il condizionatore, eventualmente non tararlo su temperature troppo basse rispetto all’esterno, o privilegia l’uso della funzione di deumidificazione;
  3. Usa l’acqua calda solo quando necessario e utilizza il più possibile la luce naturale e installa illuminazione a led;
  4. Scegli sempre elettrodomestici ad elevata efficienza energetica, costano un po’ di più ma il risparmio ripaga velocemente l’investimento;
  5. Cambia subito fornitore di energia elettrica, scegli quelli davvero sostenibili.

Tutti i grandi gruppi come ENI, ENEL, Edison, Acea, A2A, Hera…offrono la possibilità di contratti “green” ed invece ricavano la maggior parte dell’energia elettrica da fonti fossili, rifiuti o nucleare.

Esistono invece produttori e fornitori di energia elettrica prodotta esclusivamente da fonti rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico), etici non solo nei confronti dell’ambiente ma anche del sociale. Puoi rivolgerti per esempio a: Cooperativa Ènostra, Dolomiti Energia…mettere  riferimenti

Il passaggio è semplice, costa poco e la bolletta è analoga a quella che paghi già se non inferiore. Un’azione concreta che aiuta il Pianeta e colpisce chi lo sta distruggendo.

  • Sganciati dal gas e renditi autonomo

Le bollette per il riscaldamento e per la luce pesano in modo significativo sul bilancio familiare, e ultimamente sempre di più.Oggi però sono disponibili finanziamenti pubblici e leve fiscali attraverso i quali è possibile fare interventi strutturali sulla propria abitazione con investimenti contenuti. È importante cogliere questo momento per rendere più efficiente l’abitazione migliorando l’isolamento dell’involucro, del tetto dei serramenti, installare le rinnovabili per l’elettricità e per il riscaldamento (es. pompa di calore + fotovoltaico).
Tra gli strumenti ad oggi disponibili ci sono:Ecobonus 110%, Gruppi di acquisto solari,Gruppi di autocostruzione

Cosa possiamo fare insieme: comunità energetiche e comunità solari

Se hai già le rinnovabili sul tetto puoi cedere l’energia che non usi al tuo vicino di casa. La Direttiva 2018/2001/CE (RED II) invita gli stati membri ad incentivare l’efficienza energetica e l’autoconsumo attraverso la definizione degli “autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente” (art.21) e delle “comunità energetiche” (art.22) quali strumenti fondamentali per raggiungere gli obiettivi previsti dalla legge stessa.La RED II chiede quindi di sviluppare nuove tecnologie smartgrid(, reti di distribuzione locali e intelligenti) che consentano ai cittadini di un territorio di mettersi insieme per produrre o scambiare energia rinnovabile a km 0, con grandi vantaggi per l’ambiente, per le tasche, e sottraendo potere ai colossi dell’energia e a chi controlla le reti.

A livello nazionale italiana, la RED II in materia di comunità energetiche è stata recepita con il Decreto Legislativo 162 del 30/12/2019 (cosidetto“Decreto Milleproroghe”) e convertito nella Legge n.8 del 28/02/2020 (Art.42bis) che ha avviato una fase sperimentale necessaria per definire i dettagli dei decreti attuativi in cui sono state definite le tariffe incentivanti per l’autoconsumo collettivo.

A-Lecomunità energetiche sono un gruppo di soggetti (comuni, condomini, famiglie o cooperative) capaci di produrre, consumare e condividere energia nel rispetto del principio di autoconsumo energetico e autosufficienza, utilizzando impianti che producono energia pulita rinnovabile. Grazie alle Smart Gridciascuno può diventare parte di una comunità energetica: chi possiede un impianto fotovoltaico connesso in rete (ed è quindi un prosumer) può condividere con altri consumer (che non hanno impianto fotovoltaico)la sua energia in eccesso.La normativa italiana non permette ancora di poter avere il premio dello scambio di energia direttamente in bolletta ma premia economicamente l’associazione di autoconsumatori per ogni kWh scambiato la quale deciderà autonomamente di come ripartire il premio tra i soci.

B-Lacomunità solare è invece una piattaforma tecnologica, gestita dal Centro per le Comunità Solari (un’associazione no – profit e spin off dell’Università di Bologna), a cui gli associati di tutt’ Italia possono chiedere di aderire versando volontariamente una quota di iscrizione per poter condividere l’energia prodotta dalla comunità.

Il contributo premiale per lo scambio di energia nella piattaforma delle comunità solari si genera attraverso le economie di prossimità del territorio dove viene aperta una sezione della piattaforma tecnologica. Il fondo energia viene costituito dai contributi delle imprese locali che vogliono sostenere attività di welfare sociale e ambientale attraverso lo scambio di energia quale attività di Responsabilità Sociale d’Impresa.

Con questa attività le imprese possono partecipare immettendo energia nella rete locale attraverso i propri impianti fotovoltaici e possono premiare le famiglie che si impegnano ad autoconsumarla attraverso la piattaforma tecnologica della comunità solare. L’energia rinnovabile delle imprese prosumer si unisce poi all’energia rinnovabile prodotta dalle famiglie prosumer in un unico grande progetto di scambio locale.I risultati ottenuti sono quelli legati alla riduzione delle emissioni concreta sul territorio ed a una riduzione diretta delle bollette per le famiglie, un’attività di welfare ambientale e sociale!

La piattaforma tecnologica si può dotare anche di stazioni di ricarica elettrica della comunità (Community Charger) che possono essere installate secondo le esigenze degli automobilisti elettrici partecipanti alla piattaforma tecnologica e che erogheranno energia elettrica rinnovabile a prezzo domestico differentemente da quanto si osserva per le stazioni di ricarica commerciali.

L’obiettivo a cui tendere sarebbe quella di trasformare le aree industriali nelle centrali di energia fotovoltaica per la comunità locale ridistribuendo la ricchezza sul territorio attraverso attività di welfare e di Responsabilità Sociale delle Imprese.

L’ampliarsi della comunità solare può portare alla creazione di Solar Info Store cioè di veri e propri punti che seguono i soci della comunità nella loro transizione energetica: scelta di fornitori di energia elettrica, riqualificazione delle case e accompagnamento nella mobilità sostenibile.

CON UN NOSTRO IMPEGNO DIAMO UN CONTRIBUTO DIRETTO AD USCIRE DALL’ENERGA FOSSILE, CI RENDIAMO PIU’ AUTONOMI DA IMPRESE ENERGENTICHE RIMETTENDO AL CENTRO I TERRITORI E DIMINUIAMO I COSTI DELLA BOLLETTA.

Per saperne di più o per attivare una comunità energetica o una comunità solare partecipa alla nostra Campagna  (perilclimafuoridalfossile@gmail.com)o proponici iniziative informative sull’autorganizzazione energetica alternativa che si svolgeranno in tutta Italia a partire dalla metà di febbraio.

Bolletta giusta: ambiente e salute più salvaguardate

L’abnorme stangata delle bollette luce-gas sta condizionando il potere di acquisto delle famiglie e le attività produttive, in presenza di un governo incapace di adottare provvedimenti atti a contenere il deficit energetico, di contendere i condizionamenti e la speculazione dei potentati gas-petroliferi.

Le misure decise dal governo Draghi nel 2021 e quelle che sta adottando in corso 2022, sono solo dei palliativi che non incidono sulla stringente necessità di ridurre la dipendenza dal gas : importato per il 95%,usato al 50% per la produzione di energia elettrica e con altre 48 nuove centrali turbogas per “le aste capacity market per i picchi di produzione”.

La decisione di produrre l’80% di energie rinnovabili entro il 2030 è continuamente contrastata(si continua a finanziare le energie fossili e addirittura si ripresenta il fallimentare e sconfitto nucleare), quando attraverso le energie naturali – sole,vento,acqua – a costo zero potremmo tagliare la bolletta energetica ben oltre il 70%. Ad esempio, la Svezia che utilizza energie rinnovabili al 70% non ha risentito dei vertiginosi aumenti del gas e del carovita.

La responsabilità di quanto sta accadendo non va ricercata nei costi della transizione energetica, come sostiene il ministro Cingolani, bensì nella trappola energetica, costituita dal permanere nella dipendenza dal gas dell’economia italiana.

Peraltro, il governo non ha intaccato alcun dividendo azionario da extraprofittienergetici,”ha lasciato fare al mercato” , visto che ricava dall’aumento delle royalties(bollette,carburanti,carovita) molta più liquidità di quanto dispone per ”calmierare la bolletta energetica”.

L’ulteriore fallimento di COP 26 testimonia l’inderogabile necessità dell’abbandono delle energie fossili e del nucleare, per il passaggio globale alle energie rinnovabili e ad un modello virtuoso di produzioni-consumi, che rompa e superi la criminale competizione tra le superpotenze a danno non solo dei paesi soccombenti ma dell’intera umanità.

A fronte di tutto ciò e alle inderogabili risposte da dare a ”quale energia approvvigionarsi e consumare?”; al contempo diventa impellente la battaglia popolare per non pagare gli extra aumenti delle bollette luce-gas, per la totale revisione della loro composizione, per la drastica riduzione dei costi delle tre forniture essenziali, acqua-luce-gas.

CAMPAGNA ” PER UNA BOLLETTA GIUSTA E LEGGERA”

Nell’ambito della Campagna”Per il clima,fuori dal fossile”, che si propone di fornire un contributo sostanziale all’abbattimento della CO2 – responsabile primario insieme a chi la produce del surriscaldamento e distruzione dell’ecosistema Terra – mediante la rapida dismissione dei combustibili fossili, ci proponiamo di combattere l’esosità delle tariffe e la scarsa trasparenza delle bollette luce e gas.

STANTE LA SITUAZIONE DESCRITTA :

– la disanima delle voci costitutive e delle modifiche da apportare alle bollette luce e gas;

– le continue e pesanti condanne dei grandi fornitori comminate dall’Antitrust per il mancato rispetto delle ”loro regole” (Enel, Eni, Edison, A2A, Acea,…);

 – l’urgente ribaltamento dell’indirizzo liberista insito nel vigente sistema tariffario, quello del “più consumi,meno paghi e relativi benefici al consumo più elevato”, per applicareinvece la ”tariffa progressiva, con fascia sociale e riduzione a chi meno consuma”,allo   scopo di tutelare la salute,l’ambiente e il benessere sociale;

– l’enorme salasso da extra aumenti delle bollette che graverà sul magro bilancio familiare a causa della fornitura delle utenze fondamentali (acqua,luce,gas) aumenti mediamente di quasi 1000 euro.

OPEN LETTER – Fossil Free Politics COP26

A Fossil Free Politics COP26 open letter to decision-makers

To: 

Prime Minister Boris Johnson

COP26 President Alok Sharma

European Commission President Ursula von der Leyen

Executive Vice President for the European Green Deal Frans Timmermans;

Executive Secretary of the UNFCCC Patricia Espinoza

Dear decision-makers,

We are writing to you as 138 civil society groups ahead of the crucial upcoming UN climate talks in Glasgow, COP26. We are calling on you to address the elephant in the room which is holding back global climate ambition: the fossil fuel industry and its lobbying. 

Specifically, we call on you to take the following urgent measures:

1- Recognise that the public interest in urgent climate action in line with keeping global heating to below 1.5oC is not compatible with the private interests of fossil fuel companies

For decades the fossil fuel industry has been successfully delaying, weakening and sabotaging greater climate ambition, and as long as it continues to maintain its access to decision-makers and the policy-making process, then it will use that access to obstruct real climate action.

The International Energy Agency’s recent 1.5oC scenario clearly states there is no room for new fossil fuel investments, yet most of the world’s biggest oil and gas companies are ignoring this and plan to keep exploring for new oil and gas. The majority of coal, oil and gas reserves have to stay in the ground if we are to keep to 1.5°C, yet vested economic interests are being placed before those of the planet.

2- Support the adoption of a strong conflict of interest policy at the UNFCCC to raise ambition

The positive impact on effective policy that can be achieved by excluding vested interests has already been successfully demonstrated at the UN level by the World Health Organisation (WHO) when agreeing the Framework Convention on Tobacco Control (UNFCTC). The WHO instituted a firewall between the tobacco lobby and public health officials after realising there was a fundamental and irreconcilable conflict of interest between the tobacco industry and public health. Known as Article 5.3, it also comes with clear guiding principles on how to apply it.

In 2016, countries representing almost 70% of the world’s population supported the introduction of a conflict of interest policy at the UNFCCC, but it was blocked by the European Union (then including the UK). This is despite the European Parliament calling on the EU to support such a process.

A new conflict of interest policy could gain strong political momentum if the UK government, as COP26 President, the European Commission, and the UNFCCC publicly supported such a call at COP26, acting in accordance with the wishes of most of the world’s population.

3-Protect official spaces at and around COP26 from fossil fuel industry influence 

The UK government has taken measures that have resulted in no Oil and Gas major sponsoring COP26 or taking part in the Green Zone, yet gas companies National Grid and SSE are still named sponsors. Protecting official spaces would include revoking fossil fuel sponsorship and participation in both the Blue and Green Zones, as well as pavilions. The EU should not use its pavilion to give a platform to the fossil fuel industry.

While many global South government and civil society delegates have been shut out of COP26, despite the UK government claiming it was a “safe, inclusive summit”, representatives from many of these companies will be proactively promoting their pro-fossil fuel vested interests at COP26. Particularly given the unequal access to this year’s talks, we expect representatives of the UK, EU and UNFCCC to refuse to share platforms or attend fossil fuel sponsored events in and around COP26.

4-Close the revolving door between your own institutions and the fossil fuel industry 

Recent research from the Fossil Free Politics campaign shows that Europe’s biggest oil and gas companies continue to have an active relationship with public officials and politicians thanks to their use of the revolving door. Between COP21 and COP26 it discovered over 70 revolving door cases between Shell, BP, Total, Eni, Equinor, Galp and 5 of their lobby groups with governments and institutions, all the way up to the ministerial level. Big Energy therefore benefits from the know-how and contact books of insiders, jeopardising democratic, public-interest decision-making.

The UK, EU and UNFCCC should close the revolving door by introducing restrictions on moving from the public sector to the fossil fuel industry or vice-versa, as well as ending industry side jobs.

5-The UK and EU should introduce a firewall between the fossil fuel industry and decision-makers

Since COP21,  Total, BP, Shell, Galp, Equinor, ENI and their lobby groups spent more than €170m on lobbying the EU, securing on average 1.5 meetings per week with top level EU Commission staff. This is part of a broader corporate capture of climate decision-making by the fossil fuel industry that ensures that ambition, and the policies to realise those goals, remains limited. As well as supporting a firewall at the UNFCCC, the EU and UK should ensure climate decision-making is protected from fossil fuel interests at the regional, national and local level. In addition to closing the revolving door, this should involve ending private lobby meetings with the fossil fuel industry, excluding the industry from climate or trade delegations, and refusing to attend fossil fuel-sponsored events.

We hope many signatories to this letter will be at COP26 in person, despite the constraints, and would appreciate a face-to-face meeting to discuss how you can increase ambition by protecting the process from the vested influence of the fossil fuel industry. We will closely observe the extent to which the UK, EU and UNFCCC take action to curb the influence of the fossil fuel industry at COP26.

We look forward to discussing this more in person,

(see the letter in pdf here)

Signed ,

Corporate Europe Obseratory

Friends of the Earth Europe

Food and Water Action Europe

Global Witness

Fossil Free Sweden

Friends of the Earth Scotland

London Mining Network

Reclame Fossielvrij (Fossil Free Advertising NL)

ReCommon

APEL57 (Association pour la préservation de l’environnement)

Counter Balance

Glasgow Calls Out Polluters

Observatori del Deute en la Globalització (ODG)

UK Youth Climate Coalition

Corporate Accountability

Gastivists Collective

350.org

Global Justice Now

Transport & Environment

Oil Change International

Urgewald

JA! Justica Ambiental

Ecologistas en Acción (Spain)

Platform

Eco Action Families

FridaysForFuture in Skövde, Sweden

Fridays for future Lidköping, Sweden

Fridays for future Söder om Söder, Sweden

Fridays for Future Flensburg

NOAH – Friends of the Earth Denmark

Rise For Climate Belgium

Amigos de la Tierra Espana

Powershift e.V

Bellagram Telegrams

Observatori DESC

CCFD-Terre Solidaire

BP or not BP?

Friends of the Earth Ireland

Profundo

Earth Ethics, Inc.

Uganda Coalition for Sustainable Development

Campagna Per il clima Fuori dal fossile

WOW Wales One World Film Festival

Emergenzaclimatica.it

Movimento No TAP/SNAM Brindisi

Baltic Pipe Ne jTtak!

Stand.earth

Council of Canadians

Climate Emergency Planning and Policy

350 Butte County, CA

Centre for Climate Safety

Texas Drought Project

Salviamo la Foresta

Edinburgh COP Coalition

Communication Workers Union NW Safety Forum

My Sea to Sky

350 West Sound Climate Action

The Corner House

Friends of the Earth Georgia

Climate Action Moreland (Australia)

Uplift

Plant Based Treaty

Animal Save Movement

Comitato Cittadini per l’Ambiente Sulmona

Coord. Ravennate Per il Clima, Fuori al Fossile

Trivelle Zero Molise

Trivelle Zero Marche

Forum Ambientalista

Fridays For Future Civitavecchia

MY World Mexico

Church Women United in New York State

Nelson chapter Council of Canadians

Akina Mama wa Afrika

TerraBlu

Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti

Comitato Sole Civitavecchia

BioAmbiente Tarquinia

Piazza 048 Civitavecchia

Associazione Spazio Solidale

Collettivo No al Fossile

Comitato per la Trasformazione Ecologica Brindisi

Below2C

Ethical Markets

RAVEN (Respecting Aboriginal Values and Environmental Needs)

Center for Research and Documentation Chile-Latin America (FDCL)

The people’s campaign for healthcare

The Port Arthur Community Action Network-”PACAN”

Grand(m)others Act to Save the Planet GASP

Group of Scientists and Engineers for a Non Nuclear Future

Aktionsgemeinschaft Solidarische Welt e.V. (Action for World Solidarity)

Gallifrey Foundation

ASEED Europe

ARRCC (Australian Religious Response to Climate Change)

GreenFaith

Friends of the Earth Cyprus

Faith for the Climate

BankTrack

Community Work Ireland

Terra Justa

Institute for Multi-level Governance & Development

Action Solidarité Tiers Monde (Luxembourg)

Center for International Environmental Law (CIEL)

Bank Information Center

ECOMUNIDADES, Red Ecologista Autónoma de la Cuenca de México

Texas Campaign for the Environment

The Global Sunrise Project

Human Nature

Southern African Faith Communities Environment Institute (SAFCEI)

Movement Rights

Centre for Citizens Conserving Environment (CECIC)

Fresh Eyes

Warrior Moms

Toronto East End Climate Collective

Institute for Social Ecology

Transition Edinburgh

Canadian Voice of Women for Peace

ClimateFast

Oxford Climate Justice Campaign

EKOenergy ecolabel

Fastenopfer

TROCA- Plataforma por um Comércio Internacional Justo

GAIA – Global Alliance for Incinerator Alternatives

Deutsche Umwelthilfe

198 methods

Canadian Climate Challenge

Seniors for Climate Action Now!

Toronto Raging Grannies

Stay Grounded

Adéquations

The Good Lobby

CEE Bankwatch Network

MultiWatch

Dossier: Idrogeno blu e CCS

a cura di emergenzaclimatica.it

“L’idrogeno blu è del 20% peggiore per l’ambiente che bruciare metano”, secondo l’ultima ricerca di Stanford University/Cornell University (Aprile 2021)

“ L’idrogeno blu è spesso visto come un importante vettore energetico in un futuro mondo decarbonizzato. Attualmente, la maggior parte dell’idrogeno è prodotto mediante “steam reforming” del metano (c.d. “idrogeno grigio”), con elevate emissioni di anidride carbonica.

Molti stati oggi propongono invece di utilizzare la cattura e lo stoccaggio del carbonio (tecnologia CCS) per ridurre (“ridurre” non … “eliminare”) queste emissioni, producendo il cosiddetto “idrogeno blu“, presentato come soluzione appunto a “basse emissioni” o “idrogeno compensato”. (Michele Carducci).

Ma un recente  studio, svolto da un autorevole gruppo di ricerca delle Università di Stanford e Cornell, smonta in modo rigoroso e non confutabile la “policy legend” del c.d. “idrogeno blu”,  dimostra che la soluzione non è neppure a “basse emissioni”. I dati attestano che le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione di “idrogeno blu” permangono piuttosto elevate, in particolare a causa del rilascio di metano fuggitivo, persino nel caso in cui l’anidride carbonica catturata dovesse essere immagazzinata per sempre e senza dispersioni, ipotesi, questa del carattere definitivo e senza dispersioni, priva di qualsiasi dimostrazione scientifica e pratica.

Lo studio: le emissioni con H2 blu e CCS sono del 20 per cento superiori che bruciare direttamente gas e addirittura del 60% bruciando diesel per il riscaldamento, considerando il carbon footprint dell’intera filiera produttiva.

Lo studio degli scienziati ha portato sconcerto nella stampa del Regno Unito, dove Boris Johnson sta per emanare la Strategia Nazionale sull’Idrogeno, basando la sua transizione ecologica al 70% proprio sull’uso di H2 blu e CCS per decarbonizzare l’economia inglese, con l’impianto BP a Teesside e il più grande impianto CCS al mondo di SSE e Equinor vicino a Hull. (vedi bibliografia)

Ma in Italia questo studio è passato quasi inosservato, come anche l’ultimo rapporto AR6 dell’IPCC che lancia “l’allarme rosso per l’umanità”.

Cos’è l’idrogeno blu? E il CCS?

L’idrogeno è uno degli elementi più diffusi in natura, ma si può scindere in modo conveniente industrialmente solo dal metano ( CH4, detto idrogeno grigio o blu) o dall’acqua ( H2O,  detto idrogeno verde).

Parleremo qui dell’idrogeno blu. Si ottiene come detto dal metano ( CH4 ) tramite elettrolisi, che richiede molta energia, e restituisce come scarto molto biossido di carbonio (CO2). L’idrogeno blu, rispetto all’idrogeno grigio, cerca di catturare tale “resto sporco” della produzione, e di stoccarlo sottoterra nei giacimenti esausti delle trivellazioni terrestri di petrolio o gas sulla terraferma o in mare. Così l’idrogeno grigio, con forti emissioni di CO2, diventa blu, catturando e nascondendo la CO2 prodotta “sotto il tappeto” con il CCS…

Per alimentare gli elettrolizzatori, non importa che energia si usa, se rinnovabile o fossile o nucleare. E ci sono diverse metodologie tecniche per estrarre l’idrogeno dal metano: ma le emissioni di CO2 sono simili, e devono essere catturate. Ma per farne cosa?

La produzione di idrogeno blu non è conveniente a livello energetico: per produrre l’equivalente di 1 Kw/ora di energia da idrogeno combusto servono circa 5 Kw/ora di energia: uno spreco dell’80% di energia ed emissioni massicce di CO2. Servono perciò ingenti interventi di sovvenzioni statali per giustificare tale produzione, che pagheremo noi poi nelle bollette in nome della decarbonizzazione.

  • E la Commissione Europea, in una nota emessa sui progetti di Recovery Fund italiani a fine giugno 2021 (DOC SWD (2021) 165 final), a pagina 60 sotto il principio del DNSH, “Do No Significant Harm”, stabilisce che nel PNRR italiano “gli investimenti nell’idrogeno saranno limitati all’idrogeno verde e non conterranno idrogeno blu ne coinvolgeranno il gas naturale” https://ec.europa.eu/info/system/files/com-2021-344_swd_en.pdf

La tecnologia CCS

CCS vuol dire Carbon Capture and Storage, ma c’è anche il CCUS, dove la U sta per Utilization, cioè una parte della CO2 catturata viene riutilizzata per scopi industriali. In parole povere, le industrie energetiche (tipo centrali a carbone ENEL) e petrolchimiche (tipo impianto ENI di Ravenna) continuano a produrre CO2 climalterante nelle loro produzioni, ma la catturano in parte, stoccandola sotto terra, rendendo così “green” le loro solite produzioni inquinanti, cioè riducendo in parte le emissioni in aria della CO2. Un classico study case di greenwashing. La produzione di idrogeno blu da metano con CCS  ne è un classico esempio.

CCS a livello scientifico

A livello scientifico ci sono molti studi che effettuano comparazioni relative, ossia binarie, tra le imprese che “fanno meglio” nella CCS. Ma questo tipo di comparazione è ingannevole (al primo posto risulta infatti Exxon!) con riguardo ad altre comparazione binarie, come quella dell’Accademia Nazionale di Scienze degli Stati Uniti. Del resto, i progetti CCS sono tendenzialmente fallimentari, quindi “incerti”.

Bisogna tener conto  che tutte le strategie su CCS, idrogeno blu etc. operano dentro la logica della c.d. “curva di indifferenza”, ossia immaginando che il decisore (soprattutto aziendale) abbia a disposizione diverse opzioni di scelta su cui esprimere liberamente la propria preferenza, senza alcuna gerarchia o priorità dettata dall’esterno.

Questo schema “in vitro” è ormai impraticabile nell’emergenza climatica.

Spieghiamo: è come immaginare la “curva di indifferenza” sul che fare dentro una casa in fiamme, predicando opzioni e preferenze fra loro tutte uguali, dal farsi bruciare vivo all’uscire di fretta da casa al chiamare i pompieri etc. e poi magari comparare chi fa meglio degli altri per ognuna di queste opzioni (per es. chi è stato più rapido nel chiamare i pompieri, che nell’abbandonare la casa ecc…). 

E’ di tutta evidenza che questo genere di rappresentazioni e comparazioni (praticate appunto dal Global CCS Institute), fingono sulla realtà, perché negano che ci sia una variabile determinante e indipendente che vincola e condiziona le preferenze: l’emergenza climatica (cfr. https://impatti.sostenibilita.enea.it/research/topic/86 ).

I pochi progetti CCS nel mondo

Sono solo 3 i progetti attualmente attivi citati in tutte le pubblicazioni: Sleipner in Norvegia, Weyburn in Canada e Salah in Algeria. Ma senza risultati economicamente convenienti. Poi, in  coincidenza con la strategia energetica varata dalla Merkel durante la sua presidenza UE (il pacchetto Clima Energia 20 20 20, taglio del 20% delle emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990, 20% del fabbisogno energetico ricavato da fonti rinnovabili, miglioramento del 20% dell’efficienza energetica),  fissati nel 2007 e recepiti nelle legislazioni nazionali nel 2009), le lobby del fossile ottennero in compensazione 1 miliardo di euro per realizzare “la costruzione e la messa in funzione, entro il 2015, di 12 impianti di dimostrazione per la produzione commerciale di elettricità con cattura e stoccaggio del carbonio (CCS)”.

L’Italia presentò il progetto ENI – ENEL “CCS Brindisi – Cortemaggiore – Porto Tolle” per 100 milioni di euro.

Il “progetto di eccellenza” italiano: CCS Brindisi – Cortemaggiore del 2008

Inaugurato nel 2011 alla presenza dell’allora Ministra dell’Ambiente Prestigiacomo, doveva separare una piccola quantità di CO2 dai fumi della centrale a carbone Enel di Brindisi (8 mila t/anno di CO2 sequestrata secondo i dati del portale sulla carbon sequestration del Massachussets Institute of Technology). La CO2 doveva poi essere trasportata lungo gran parte della penisola con autobotti fino a Cortemaggiore, 800 km, nel piacentino, per essere iniettata all’interno di un sito di stoccaggio geologico di Stogit (il gestore degli stoccaggi gas). L’impianto di cattura alla centrale ENEL di Cerano è stato realizzato, ma poi non si è saputo più nulla del progetto CCS. Nel 2015 la ditta Stogit ha presentato in Provincia richiesta di riesame dell’ autorizzazione integrata ambientale (Aia) per l’impianto di compressione e stoccaggio di gas naturale in Comune di Cortemaggiore (via Tre Case e via Sant’Anna, in località Olza) e in Comune di Besenzone, dove si cita ancora l’impianto di iniezione di anidride carbonica, del quale si erano perse le tracce dal 2012.

Tanto che persino il MIT  di Boston dichiarava chiuso il progetto nel 2016 per non aver ricevuto dati: “After an initial testing period in March 2011, the project was expected to be operational by 2012. However there has been no news on this project since 2011 and it is presumed that the project didn’t proceed to the operational phase.”

Solo nel 2020, Salvatore Bernabei, numero 1 di Enel Green Power, ha  dichiarato in un’intervista a Standard & Poors che quella della CCS per Enel è una stagione finita.

E solo l’11 agosto 2021 ENEL presenta le integrazioni alla Valutazione di Impatto Ambientale per la conversione a gas di Cerano, e decide di demolire “l’area retro caldaie a carbone e l’impianto sperimentale di cattura e stoccaggio della CO2” visto che le ombre delle strutture, proiettate sui pannelli solari da installare, ridurrebbero drasticamente la produzione energetica dei pannelli.  Il flop del progetto.

  • Nel 2018, la Corte dei Conti Europea nella relazione n. 24/2018 ha certificato il fallimento della tecnologia CCS dopo aver esaminato i risultati ottenuti con il programma EEPR. I progetti sono stati cancellati o conclusi senza essere entrati in funzione, con l’eccezione dell’impianto pilota in Spagna che, però, non ha dimostrato l’utilizzo del CCS su scala reale.

L’ENI e il CCS di Ravenna

2020: ma ENI insiste: il progetto CCS di Ravenna  è un polo di separazione di CO2 da attività energetiche e chimiche almeno inizialmente dell’area del gruppo Eni e sua iniezione in giacimenti gas esauriti del medio Adriatico. La dimensione obiettivo di ENI ne farebbe “uno dei più grandi hub del mondo di CCS” con una capacità a regime fino a 5 milioni di t CO2.

Nell’ estate 2020, Claudio Descalzi parla di un lavoro di Eni per proporre uno dei progetti principali al Piano Europeo del Recovery Fund: il CCS di Ravenna.

Infatti troviamo nella prima bozza del Recovery Plan di dicembre 2020 del Governo Conte bis 1.2 miliardi da investire nel progetto CCS di Ravenna. Ma la Commissione istruttrice della UE boccia il finanziamento, escluso poi già nella seconda bozza PNRR del governo Conte e poi nella versione definitiva del PNRR presentata dal governo Draghi ad aprile 2021 dopo la citata nota EC di fine giugno 2021 (DOC SWD (2021) 165 final). Restano nel PNRR definitivo solo investimenti in Green Hydrogen Valley e idrogeno verde. Ma il neoministro della Transizione Ecologica Cingolani punta ancora sull’idrogeno blu…

La Strategia Nazionale sull’Idrogeno (2020)

Il Ministero dello Sviluppo Economico presenta nel novembre 2020 la nuova Strategia Nazionale sull’idrogeno, basandosi sui dati del PNIEC ( Piano Nazionale Italiano Energia e Clima ) di gennaio 2020.

Il piano prevede: 2% circa di penetrazione dell’idrogeno nella domanda energetica finale, fino a 8 Mton in meno di emissioni di CO2eq, circa 5 GW di capacità di elettrolisi per la produzione di idrogeno (elettrolisi=idrogeno blu), creazione di oltre 200k posti di lavoro temporanei e fino a 10k di posti fissi, fino a 27 mld € di PIL aggiuntivo, fino a 10 mld € di investimenti per H2 (investimenti FER da aggiungere),

di cui metà da risorse e fondi ad hoc.

E ciò per implementare applicazioni per la mobilità (es. camion a lungo raggio,

treni, navi, aviazione, ecc. ), applicazioni industriali (es. chimica, raffinazione, siderurgia primaria, ecc. ), stoccaggio e generazione di elettricità dall’idrogeno, applicazioni per il riscaldamento residenziale e commerciale.

Le nostre osservazioni al PNIEC prima (basato al 70% sulla transizione ecologica col metano) e poi alla Strategia sull’idrogeno hanno dimostrato che:

  • le previsioni del Piano sull’idrogeno sono anacronistiche, considerando la stesura del PNIEC che prevedeva una riduzione solo del 40% delle emissioni per il 2030, e a priori, considerando  l’ultimo rapporto AR6 dell’IPCC che imputa il metano come la causa principale per l’allarme rosso all’umanità.
  • che la Strategia Europea sull’idrogeno è molto più incisiva raccomandando una “priority to develop renewable hydrogen”
  • che c’è una costante confusione tra idrogeno rinnovabile verde e idrogeno “compensato” blu
  • che è basata sull’idrogeno “compensato” con CCS, e in Italia non ci sono impianti CCS funzionanti
  • che non ci sono incentivi per elettrolizzatori e idrolizzatori
  • che le reti gas italiane sono adeguate al trasporto solo del 5% di idrogeno in mix col metano, perciò è un combustibile poco distribuibile
  • e tanto altro (vedere le nostre osservazioni alla Strategia sull’idrogeno).

Le nostre conclusioni:

  • l’idrogeno blu ha risultati quantitativamente poco rilevanti
  • il CCS rinvia il problema CO2 alle generazioni future
  • il CCS ha costi elevati e rischi sismici e ambientali
  • l’idrogeno blu conviene solo alle aziende fossili
  • H2 blu deve essere sostenuto da sovvenzioni pubbliche per essere conveniente, soldi dati alle aziende fossile per continuare a inquinare e nascondere  la CO2 sottoterra
  • tutte le sperimentazioni finora sono state “uno spreco di risorse pubbliche” secondo la Corte dei Conti Europea
  • H2 può essere trasportato negli attuali gasdotti solo al 5-10%, giustificando l’uso di metano al 90%
  • L’ultimo rapporto AR6 dell’IPCC indica il metano come il principale elemento climalterante responsabile dell’emergenza climatica, perciò da ridurre, anzi, azzerare subito, soprattutto per le perdite fuggitive nella filiera.

Bibliografia del dossier:

Fonti CCS:

  • Il Catalogo delle Tecnologie Energetiche.pdf – DSCTM – CNR del 2017, pag. 39

Definizione preliminare delle specifiche tecniche per la … Enea 2016, pag. 47 Ambiguità, rischi e illusioni della CCS-CCUS – WWF di maggio 2021

Rassegna stampa sullo studio su H2 Blu e CCS:

Lo studio di Stanford University e Cornell University:

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/ese3.956

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1002/ese3.956

La Relazione speciale della Corte dei Conti Europea sul fallimento del CCS

La Nota della Commissione Europea sui progetti di Recovery Fund italiani di fine giugno 2021 (DOC SWD (2021) 165 final:

Fonti su H2 blu e CCS

  • “Renewables 2020 – Global Status Report”, REN21.
  • “Il punto sull’eolico”, GSE, ottobre 2017.
  • “Rapporto Statistico Solare fotovoltaico 2018”, GSE, giugno 2019.
  • “Fattori di emissione atmosferica di gas a effetto serra nel settore elettrico nazionale e nei principali Paesi Europei”, ISPRA, 2019.
  • “Tons of Co2 emitted into the atmosphere”, The World Counts.  https://www.theworldcounts.com/challenges/climate-change/global-warming/global-co2- emissions/story
  • Estimation of Greenhouse Gas Emissions from the EU, US, China, and to 2060 in Comparison with Their Pledges under the Paris Agreement, Yang Liu 1,2 ID , Fang Wang 1,* and Jingyun Zheng 1,2, in MDPI, 2017
  • World Energy Outlook, IEA, 2016-2019
  • Carbon removal lessons from an early corporate purchase, Microsoft, 2021
  • Special Report on Carbon Capture Utilisation and Storage in clean energy transitions, IEA, 2020
  • Sito web del progetto Hynet di produzione di “blue hydrogen” in prossimità di Liverpool: https://hynet.co.uk/
  • Intervista di Claudio De Scalzi a Osvaldo De Paolini del Messaggero, 17/9/2020, https://www.eni.com/it-IT/media/news/2020/09/intervista-claudio-descalzi-messaggero.html

Fonti progetto CCS Brindisi – Cortemaggiore ENI – ENEL

Redatto da Angelo Gagliani,

con il contributo degli studenti della redazione e del Prof. Michele Carducci, UniSalento

Prof. Carducci: “È ora di far rispettare la giustizia climatica”

Abstract: The search for the differential characters of “climate justice” – The article proposes a brief reconstruction of the different conceptions of justice, connected to the themes of the environment, climate change and ecology, to then compare these conceptions with the empirical experiences and doctrinal classifications of “climate change litigation strategies”.
The panorama appears unclear in identifying the specificities of the legal issues connected to the anthropogenic phenomenon of climate change, especially in the current situation of triple (ecosystem, climate and fossil) planetary emergency, which requires to fight against the collapse of the earth system also through “bottom up” instruments and not being trapped in the “Tragedy of the Horizon”.

La ricerca dei caratteri differenziali della “giustizia climatica”

di Michele Carducci

Keywords: Climate Justice; Climate Litigation Strategy, Climate Emergency; UNFCCC.

1. Una questione di (uso di) parole

Le formule “giustizia ambientale”, “giustizia climatica” e “giustizia ecologica” identificano un campo semantico talmente variegato e multiforme, da essere utilizzato da giuristi e scienziati sociali per definizioni tutt’altro che univoche e convergenti.

Dal punto di vista del diritto comparato, poi, esse offrono un interessante esempio di come i formanti giuridici vengano impiegati nelle loro reciproche osservazioni, al fine di (tentare di) descrivere la realtà del rapporto tra diritto e ambiente naturale esterno. Il formante dottrinale definisce la “giustizia” osservando e comparando il formante “giurisprudenziale”, ma molto spesso ignorando le differenze reali tra “ambiente”, “clima” ed “ecologia” (così sovrapponendo fenomeni naturali, come il clima, a definizioni convenzionali, come quella di “ambiente”, a figurazioni intellettuali, come quella di “ecologia”), per poi trascurare anche gli elementi determinanti e distintivi del formante “normativo”, riferibile ora all’“ambiente”, ora al “clima” ora alla “ecologia”. Contestualmente, filosofie ed etiche ambientali discutono delle questioni di “giustizia”, senza considerare gli elementi determinanti dei diversi sistemi normativi, al cui interno i temi ambientali, climatici ed ecologici sono regolati giuridicamente. Del resto, il paradosso più frequente, in cui incorre proprio il diritto ambientale, è quello di interpretare norme e procedimenti, senza conoscere sufficientemente l’oggetto cui tali norme si riferiscono: ovvero gli elementi naturali fra loro diversamente interagenti di biosfera e atmosfera.

Le corrispondenti formule di “giustizia”, pertanto, risentono di questa pprossimazione, generando non pochi equivoci e alimentando analisi parziali e spesso persino approssimative sul tema del rapporto tra “giustizia”, da un lato, “ambiente”, “clima” ed “ecologia”, dall’altro.

In questo quadro, il presente contributo, senza alcuna pretesa di completezza e senza entrare nel dettaglio dei singoli profili (per i quali si forniranno rinvii bibliografici), intende offrire alcuni criteri di orientamento su questo intreccio di parole, forme e metodi di osservazione della realtà, ad uso dei giuristi3.

Lo si farà nella separazione lessicale, apparentemente banale ma tutt’altro che scontata, tra “giustizia” (“ambientale”, “climatica” ed “ecologica”) e “contenzioso” (“ambientale”, “climatico” ed “ecologico”), dato che il primo rappresenta il frutto della elaborazione del formante dottrinale, di derivazione giuridica e sociologica, mentre il secondo riflette le dinamiche reali del solo formante giurisprudenziale, così come analizzato dal primo.

2. Formanti dottrinali e visioni di “giustizia”

Tutte e tre le formule “giustizia ambientale”, “climatica” ed “ ecologica” sono figlie di elaborazioni dottrinali di carattere socio-giuridico.

Il concetto “ambientale” nasce negli Stati Uniti tra i movimenti per la difesa dei diritti civili che denunciano, a partire dalle proteste del 1982 della Warren County nel North Carolina, come l’esposizione a rischi e danni ambientali (in termini principalmente di inquinamento, rifiuti e degrado paesaggistico) abbia riguardato sistematicamente comunità povere, periferiche o di minoranza, incapaci di far valere i propri diritti presso i tribunali. Il sociologo Robert Bullard, qualificatosi come il padre della “giustizia ambientale”4, è stato il primo ad allegare evidenze empiriche sistematiche su tale connessione. “Giustizia ambientale”, pertanto, è divenuto sinonimo di “giustizia sociale” nell’uso dei luoghi e nell’esercizio dei propri diritti, rispetto a processi umani di impatto ambientale5. Il suo fulcro non ha riguardato l’ambiente in generale né tantomeno il clima o l’ecologia, genericamente intesa come discorso sulla natura6. Ha riguardato rischi e danni rispetto a luoghi e soggetti, in una prospettiva socio-centrica che, invece di mettere in discussione i processi ecodistruttivi, ne contestava le modalità di gestione degli effetti (dove allocare i danni, piuttosto che come evitare i danni).

“Giustizia ambientale” è così assurto a sinonimo di conflitto di “localizzazione”, in tal senso “ambientale”: soggetti e luoghi alimentano contrarietà ai danni, al di là delle loro specifiche rappresentazioni del rapporto tra azioni umane, biosfera e atmosfera, declinando il tema “ambientale” come contrasto “locale” agli impatti delle emissioni inquinanti, dei rifiuti e delle trasformazioni del paesaggio, rispetto a una situazione sociale già disagiata (non a caso, inaugurando sia la c.d. “Popular Epidemiology” sia le prassi c.d. “PEM” – Participatory Environmental Monitoring).

Del resto, su questa linea evolutiva sono maturate le numerose rappresentazioni della logica conflittuale c.d. “Nimby”. Lo stesso diritto ambientale delle “valutazioni di impatto” e dell’accesso alla giustizia (si pensi, per tutte, alla Convezione di Aarhus del 1998) è figlio di tale figurazione georeferenziata tra condizioni spaziali/condizioni sociali dei danni.

Più complesso, nelle sue matrici e nei suoi contenuti, si rivela essere il concetto di “giustizia ecologica”, frutto dell’intreccio di studi e valutazioni di biologi, economisti e filosofi. Da un lato, infatti, il termine può essere ricondotto al contributo di Barry Commoner sulle “forme di governo” degli ecosistemi naturali come “cicli chiusi disturbati” da regole umane giuridiche ed economiche, e di K. William Kapp, con il suo The Social Costs of Private Enterprises del 1950, riferito alla natura e alle sue regole ignorate dagli istituti giuridici del contratto.

Dall’altro, i suoi elementi differenziali, rispetto alla prospettiva formale delle “valutazioni di impatto” su singoli luoghi, sono stati scandagliati dal confronto tra economia ecologica ed ecologia politica. Se l’economia ecologica studia le relazioni tra economia e ambiente in termini di sostenibilità naturale degli scambi economici nel computo e nella quantificazione globale dei danni ambientali, l’ecologia politica scandaglia parallelamente come questi scambi globali, produttivi di danni, incidano sulla distribuzione dei costi fra Stati e comunità rispetto non solo al mercato (in termini, quindi, di perdita di valore), ma anche alla società, con le sue disuguaglianze, e alla natura, con le sue biodiversità. Si pensi alle analisi sul ciclo di vita di un prodotto, dall’estrazione degli elementi per la sua composizione fino alla sua commercializzazione, al suo consumo e alla sua fine come “rifiuto”.

Con riferimento ad esse, si è parlato tanto di “economia di rapina” (Raubwirtschaft), sin dalla fine del XIX secolo, per spiegare le asimmetrie fra mancata attribuzione di valore a beni, servizi e risorse naturali e quantificazione dei prezzi dei prodotti confezionati attraverso il loro sfruttamento, quanto di “dumping ecologico”, per indicare le modalità volontarie di riduzione del prezzo di un prodotto escludendone i costi naturali, quanto di “commercio ecologicamente diseguale”, per descrivere la debolezza negoziale dei paesi con forti diseguaglianze sociali ed enormi ricchezze naturali, incapaci di imporre condizioni e prezzi (per esempio, come “Natural Capital Depletion Tax”) sullo sfruttamento della natura.

Pertanto, mentre la “giustizia ambientale” si occuperebbe, attraverso la sociologia giuridica, del rapporto tra discriminazioni sociali, mancata tutela effettiva dei diritti e impatti ambientali locali, la “giustizia ecologica” guarderebbe, in base a metodi economici, alle asimmetrie che i processi produttivi globali di merci mantengono rispetto alla (mancata) attribuzione di valore a beni, servizi e risorse naturali e ai costi derivanti dal loro sfruttamento. Metodologie, come quella del “flusso di materiali”, dell’“uso di energia” e dell’“appropriazione umana della produzione primaria netta” (HANPP)18, sono servite a far risaltare tale differenza tra considerazione locale dell’ambiente e prospettiva “ecologica” globale, consentendo l’avvio di un dialogo tra economia ed ecologia, che invece la dottrina giuridica, costretta allo studio dei singoli ordinamenti giuridici e dei singoli danni sui singoli luoghi dentro il paradigma della “sovranità statale sulle risorse naturali”, non ha mai pienamente perseguito, accontentandosi al massimo della sociologia giuridica dei conflitti locali o della comparazione interordinamentale delle norme ambientali.

Il termine “giustizia climatica” è più recente e si presenta a vocazione anch’essa globale. Appare per la prima volta nel 1999, in un saggio sulla responsabilità dell’inquinamento dei paesi industrializzati a svantaggio degli Stati che subiscono gli effetti del cambiamento climatico e del surriscaldamento del sistema Terra, a causa delle imprese fossili21. Nel 2002, con il Climate Justice Summit, in occasione della COP6 a L’Aia, in Olanda, è stato ufficializzato, per poi trovare una sua prima formalizzazione nei “Ventisette principi della giustizia climatica di Bali”, cui sono seguite altre dichiarazioni più o meno simili nei contenuti: dal c.d “Llamado a los pueblos para actuar contra el cambio climático” alla “Dichiarazione di Durban sul commercio del carbonio”24, sino alla fondazione, nel 2007 sempre a Bali in occasione della COP13, della rete associativa “Climate Justice Now”, e nel 2009, all’interno del “IV Cumbre de Pueblos y Nacionalidades Indígenas del Abya Yala”, della istituzione del “Tribunal de Justicia Climática”, che «juzgue éticamente a las empresas transnacionales y los gobiernos cómplices que depredan la Madre Naturaleza, saquean nuestros bienes naturales y vulneran nuestros derechos».

La formula, originariamente frutto di mobilitazioni ambientali locali prevalentemente indigene più che di analisi e studi scientifici, ha preso poi sempre più piede, alimentando una semplificazione molto approssimativa, così sintetizzabile: il fatto che i paesi maggiormente colpiti dai fenomeni atmosferici estremi, indotti appunto dall’accelerazione dei cambiamenti climatici, siano quelli che meno hanno contribuito allo stravolgimento del sistema climatico, in termini di emissioni di gas ad effetto serra, impone inedite rivendicazioni di giustizia a livello globale28. Da tale angolo di visuale, la “giustizia climatica” si presenterebbe ancora una volta come questione di giustizia sociale “locale” sui danni29. Del resto, tale riduzione ha indotto ad accomunare il concetto di “clima” a quello di “ambiente”: come gli “ambienti” periferici delle singole località sono stati danneggiati dai fenomeni di inquinamento e deposito rifiuti, così il “clima” degli Stati meno responsabili delle emissioni è stato danneggiato dagli effetti atmosferici dei cambiamenti climatici, prodotti dai paesi più ricchi30. Posta in questi termini, la questione di “giustizia” su “ambiente” e “clima” presenterebbe un comune denominatore: il danno “localizzabile”.

Questo parallelismo, però, ha trascurato la variabile determinante della matrice della “ubicazione” del danno stesso, che, nel caso “ambientale”, è esclusivamente politica (la dislocazione della fonte inquinante o di discarica), mentre, nel caso “climatico”, è biosferica e atmosferica (le emissioni globali che determinano aumento della temperatura e fenomeni atmosferici estremi che circolano indipendentemente dalla volontà politica di “ubicazione” del danno, dentro un complesso processo atmosferico e biosferico di Feedback Loop).

Di conseguenza, la “giustizia climatica” non coincide affatto con una specifica vicenda di decisione politica sui danni, bensì deriva dalla produzione di emissioni che sfuggono poi al controllo umano dei territori. Non è dunque una questione di rapporti sociali tra territori (il dove ubicare il danno), ma di rapporti ecologici tra attività umane e dinamiche naturali (il come gestire le emissioni tra biosfera e atmosfera), sottratti proprio a quella disponibilità politica sul pianeta terra, che il diritto ambientale ha disciplinato come regolazione su singoli luoghi e singoli danni.

L’evidenza è emersa da due specifiche modalità di comparazione:

– quella tra dinamiche ecosistemiche globali e regole giuridiche nazionali di “impatto ambientale”, finalizzate a governare i conflitti sui territori e (tentare di) rendere compatibili le interferenze umane sugli ecosistemi;

– quella storica e geopolitica fra Stati con riguardo alle emissioni cumulative, da ciascun paese prodotte dall’era industriale in poi.

È stata soprattutto quest’ultima comparazione a rendere tangibili i problemi di “giustizia climatica” interstatale sia sul fronte della imputazione “differenziata” delle responsabilità dei singoli Stati sia su quello della condivisione, fra Stati, delle soluzioni. In particolare, essa ha inciso su due fronti: la distribuzione del c.d. “Carbon Budget”, ossia della quantità di CO2 che può essere ancora emessa nell’atmosfera senza pregiudicare il riscaldamento climatico nei limiti (di 2°C o 1,5°C in più rispetto ai valori pre-industriali) richiesti dagli impegni internazionali assunti per contrastare ulteriori effetti devastanti di mancato controllo del Warming Feedback Loop; la considerazione della “intensità di carbonio” (ossia il quantitativo di carbonio emesso per unità di energia consumata pro capite), che risulta paradossalmente inferiore negli Stati a più alto consumo di energia, in quanto più ricchi e tecnologicamente più efficienti, rispetto a quelli a più basso consumo di energia ma meno efficienti perché più poveri e con meno tecnologie di contenimento delle emissioni (si emette più carbonio per produrre una maglietta in Bangladesh che nella UE o negli USA). Come gestire queste due situazioni di “giustizia”, quella “globale” del “Carbon Budget” e quella “locale” della “intensità di carbonio”? Dividendo il “Carbon Budget” per il numero degli Stati, dato il carattere “globale” del Feedback, o modulandolo in ragione di valutazioni né biosferiche né atmosferiche, ma politiche e sociali “locali” (data la matrice sociale della “intensità di carbonio”)?

Il caso più emblematico è stato offerto dalla Cina. Una serie di studi hanno dimostrato che l’aumento delle sue emissioni è dipeso da fattori esterni, connessi alla globalizzazione dei mercati. Infatti, quasi il 50% delle emissioni di questo paese, a partire dal 2002, sono state generate da due variabili, entrambe estranee alla crescita della popolazione e al cambiamento degli stili di vita dei cinesi: da un lato, l’aumento delle esportazioni per soddisfare domanda estera; dall’altro, l’aumento di capitali stranieri in attività energivore interne al paese, ma funzionali a quelle esportazioni. In poche parole, la Cina ha peggiorato il proprio “Carbon Budget” per produrre beni di consumo per l’Occidente e attraverso investimenti dell’Occidente.

La constatazione è importante, perché ha tracciato il nesso della “giustizia climatica” con quella “ecologica” (globale), prima ancora che con quella “ambientale (locale), con riguardo, però, non al ciclo di produzione di una merce rispetto alla natura (fonte del “commercio ecologicamente diseguale”), bensì all’aumento del fabbisogno energetico di uno Stato, con connesse emissioni, a sostegno di consumi esterni allo Stato, con connesse emissioni40. La “giustizia climatica”, di conseguenza, si presenta come fenomeno esso stesso di Feedback Loop: da un lato, la disparità di trattamento sulle emissioni climalteranti in funzione del mercato globale penalizza gli Stati esportatori in termini di “Carbon Budget” e di “intensità di carbonio”, a vantaggio degli Stati importatori più virtuosi sul fronte climatico: dall’altro, l’aumento delle emissioni contribuisce comunque a determinare effetti atmosferici di doppio danno, negli Stati esportatori, con l’aumento delle emissioni “da esportazione”, e negli Stati meno climalteranti, con gli eventi atmosferici estremi e la beffa della “intensità di carbonio”. In questo quadro asimmetrico, gli interrogativi di “giustizia” diventano innumerevoli. Come imputare la responsabilità delle emissioni e la quantità di “Carbon Budget” disponibile? In base al luogo di produzione o a quello di consumo? Un sistema di contabilità climatica sul consumo non offrirebbe un’immagine più realistica della responsabilità dei vari Stati riguardo al riscaldamento globale? E non consentirebbe di differenziare la responsabilità degli Stati, nell’adempimento del controllo delle emissioni, da quelle delle imprese multinazionali o straniere che investono sulle esportazioni, abusando della “intensità di carbonio” e concorrendo così all’aumento di emissioni?

In una parola, tale sistema di contabilità non chiarirebbe e puntualizzerebbe meglio le imputazioni giuridiche di responsabilità dei soggetti pubblici e privati rispetto ai cambiamenti climatici antropogenici, rispondendo a domande globali di “giustizia”?

Consentirebbe, per esempio, di qualificare giuridicamente la capacità dell’atmosfera di assorbire la CO2 come “Global Common” di cui ingiustamente si sarebbero appropriati Stati di consumo e imprese di esportazione, in termini appunto di emissioni e connesso condizionamento del “Carbon Budget” e della “intensità di carbonio”, a discapito di altri Stati, imprese e persone di mera produzione locale e di basso consumo locale. Tra l’altro, il conteggio del “debito climatico” di Stati e imprese è stato già ampiamente testato, sicché l’operazione non apparirebbe impossibile. Esso servirebbe anche a collocare la responsabilità del cambiamento climatico nell’alveo dell’equità intergenerazionale (tra presenti e future generazioni rispetto al “Carbon Budget”), come, tra l’altro, riconosciuto dal diritto climatico internazionale.

Infine, renderebbe più verosimilmente perseguibili gli obiettivi di sviluppo sostenibile formulati dall’ONU nel 2015 (i 17 SDGs ONU), di cui si è già dimostrato che la realizzazione indifferenziata, secondo le stesse traiettorie di crescita già perseguite dai paesi sviluppati, è praticamente impossibile, proprio a causa del poco “Carbon Budget” disponibile e della diversa “intensità di carbonio” fra Stati.

 3. Dalla “giustizia” alla “Litigation Strategy”

Esiste un contenzioso giudiziale che si fa carico di dare risposte a queste domande di “giustizia climatica”? Invero, l’ipotesi del “Tribunal de Justicia Climática” mirava, ancorché in modo piuttosto approssimativo, a questo scopo. Tuttavia, l’esperimento non ha avuto seguito né è servito a far maturare una opinio iuris sul tema, anche in ragione delle prevalenza di discorsi normativi a contenuto morale, prima ancora che giuridico-positivo.

Pertanto, ad oggi, non esiste alcun Judicial Case il cui thema decidendum verta sul “debito climatico” tra Stati o tra imprese, sul “Carbon Budget” parametrato al consumo degli Stati e non alla produzione negli Stati, sulla disparità di trattamento rispetto alla “intensità di carbonio” delle persone o dei popoli.

Stando così le cose, allora, che cosa sarebbe il “contenzioso climatico”? Un normale contenzioso “ambientale” insorto in determinati luoghi con riguardo a determinati danni da emissione climalterante? Oppure esso coincide con qualsiasi controversia dove si discute comunque di emissioni climalteranti, indipendentemente dalle questioni di “giustizia climatica” globale? O, ancora, esso risiede pure nei litigi giudiziali in tema di tutela degli ecosistemi e riconoscimento dei “diritti della natura”, minacciati dai cambiamenti climatici? Ma a quali condizioni è possibile rubricare un contenzioso come “ecologico”, invece che “climatico”?

Come si può constatare, a seconda dell’opzione del formante dottrinale sulla questione di “giustizia” rispetto ad “ambiente”, “clima” ed “ecologia”, la risposta alle domande poste può variare, condizionando classificazioni e denominazioni del formante giurisprudenziale come “contenzioso climatico”.

È proprio questo lo scenario del panorama comparato delle dottrine giuridiche sulle “Climate Change Litigation Strategies”. Ogni classificazione riflette la “visione di giustizia” del giurista che inquadra il formante giurisprudenziale, al di là della osservazione reale e concreta della differenza tra “ambiente”, “clima” ed “ecologia” e delle variabili determinanti del diritto48.

Alcune qualificano come “climatico” qualsiasi contenzioso che, direttamente o indirettamente, si riferisca agli impatti dei cambiamenti climatici in determinati luoghi49. Secondo questo criterio, la distinzione tra contenziosi “ambientali” e contenziosi “climatici” non sussisterebbe, potendo l’impatto risultare multifattoriale e gli argomenti giuridici vertere non per forza su emissioni, “Carbon Budget”, “debito climatico” e “intensità di carbonio”.

Altre definiscono “climatiche” le controversie riferite all’utilizzo umano delle risorse fossili, in termini di estrazione, produzione e distribuzione di energia pacificamente riconosciuta come climalterante.

Altre ancora enfatizzano la funzione “strategica” del contenzioso in cui si denunciano responsabilità omissive dello Stato nell’adempimento dei propri obblighi di lotta ai cambiamenti climatici, soprattutto dopo la conclusione dell’Accordo di Parigi del 2015 e l’adozione dei 17 SDGs ONU 2030, comprensivi, al n. 13, del tema del clima come “Goal” giuridicamente disciplinato. Infine, sono da ricordare le classificazioni che denominano “climatiche” le controversie giudiziali in cui si dibatte comunque di lesioni dei diritti umani derivanti dal cambiamento climatico.

Accanto alle classificazioni dottrinali, si annoverano raccolte di contenzioso di varia natura, giudiziale, amministrativo, paragiurisdizionale, ordinate in parallelo alle fonti del diritto climatico53. Queste ultime orientano la ricerca di “Cases” secondo una struttura “ad albero” su nove livelli: 1. collocazione geografica della controversia; 2. natura del convenuto (Stato, impresa, privato); 3. attori del contenzioso (cittadini e associazioni, amministrazioni locali, investitori pubblici o privati, azionisti o gruppi di azionisti di Corporation); 4. contenuti del contenzioso (includendovi temi i più diversi: dalla tutela dei diritti umani all’accesso alle informazioni, alla regolarità delle autorizzazioni amministrative, ecc.); 5. parametro utilizzato (fonti internazionali, Duty of Care e Due Diligence di fonte interna, contratti); 6. comportamento censurato (commissivo, negligente, omissivo); 7. responsabilità giuridica eccepita (contrattuale, extracontrattuale, oggettiva); 8. lesione concreta lamentata (disturbo della quiete pubblica, turbativa dei diritti d’uso e godimento di proprietà, immissione in commercio di prodotto difettoso, superamento soglie di emissione, fumi e immissioni moleste, arricchimento senza causa, atti emulativi e abuso di diritto, trasparenza e verità nella informazione); 9. evento dannoso lamentato (locale, come conseguenza di emissioni globali di CO2, oppure il contrario, globale, in quanto incremento proveniente dal comportamento locale).

In linea con questo approccio meramente didascalico, sono state anche pubblicate raccolte e ricognizioni di “Climate Change Litigation Strategies”.

 Questo quadro, però, non consente di comprendere quale sia l’istanza di “giustizia”, sottesa al contenzioso censito rispetto al fenomeno del cambiamento climatico antropogenico. Ne deriva che, mentre il contenzioso “ambientale” appare facilmente intuibile nei suoi contenuti (come istanza di giustizia per danni “localizzati” oggettivi – all’ambiente – e soggettivi – alla persona, in termini di salute personale e salubrità ambientale), quello “climatico” sembrerebbe prestarsi a qualsiasi finalità in nome del clima.

Non a caso, nel contesto angloamericano, dove queste classificazioni hanno avuto presa, la “Climate Change Litigation Strategy” può includere di tutto: dalle pratiche c.d. “SLAPP” (Strategic Lawsuit Against Public Participation)56 a quelle “ISDS” (Investor- State Dispute Settlement Mechanism)57, al ricorso alla c.d. “Zombie Clause” della Carta dell’Energia (art. 47 c. 3) a favore delle Corporation, all’uso dell’argomento climatico da parte di investitori in concorrenza con Corporation climalteranti, ai più classici riferimenti ai contenziosi di “Toxic Tort”, “Public Trust”, “Impact Assessment”.

Questa genericità è alla base delle critiche sulla effettiva esistenza di un “contenzioso climatico” separato e autonomo dalle altre pratiche di “Litigation Strategy”, fondate su contenuti, parametri e pretese non connessi con questioni di “giustizia” nell’era dei cambiamenti climatici antropogenici.

Nel contempo, essa, per quanto efficace come ricognizione didascalica dell’esistente, non induce a individuare e comparare gli elementi comuni alle diverse esperienze di “contenzioso climatico”, maturate nel mondo, né i problemi che tali esperienze presentano, la cui conoscenza faciliterebbe anche la comprensione degli effettivi obiettivi di “giustizia” perseguibili a livello globale, dato che la “giustizia climatica” insorge come problema globale.

Del resto, tutte queste ricostruzioni trascurano l’elemento determinante della qualificazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio, le cui caratteristiche sembrano indifferenti al tema delle questioni di “giustizia climatica” (si pensi al rapporto tra investitori e Corporation), a condizione che, nel dedotto stesso, risulti in ogni modo presente il profilo delle emissioni climalteranti antropogeniche. In poche parole, al fine di porre in essere un “contenzioso climatico”, chi agisce, nel dover dimostrare l’esistenza di una norma che contempli in astratto il diritto che si vuol far valere (c.d. possibilità giuridica), il bisogno di tutela giurisdizionale derivante dall’affermazione dei fatti costitutivi e dei fatti lesivi del diritto (c.d. interesse ad agire) e la coincidenza tra chi propone la domanda e colui che nella domanda stessa è affermato come titolare del diritto (c.d. legittimazione ad agire), rappresenta un rapporto giuridico specifico riguardante non il “clima”, ma situazioni o istituti giuridici disciplinati da fonti normative o contrattuali estranee alla lotta ai cambiamenti climatici, al cui interno, però, il fenomeno delle emissioni climalteranti può essere speso per rafforzare le proprie tutele.

In questo quadro, la questione climatica scade a occasione di mera “Strategy”, nel significato già scandagliato dalla dottrina65, ovvero come approccio utile a rafforzare interessi contrapposti ad altri oppure non veicolati dalla deliberazione politica rappresentativa.

Insomma, per aversi “contenzioso climatico” non si deve necessariamente sottoporre a giudizio l’obbligazione climatica né atti o fatti considerati illeciti per il loro concorso agli effetti catastrofici del cambiamento climatico. Può essere, e il più delle volte è, altro: un determinato atto da impugnare; un determinato evento da eccepire come fatto illecito; un determinato comportamento ritenuto negligente; un determinato interesse pretermesso da un determinato procedimento; un determinato impatto; insomma altro, al cui interno il clima assurge ad “argomento” di rafforzamento della pretesa giudiziale, non invece a oggetto unico e assorbente del giudizio.

Molte difficoltà evidenziate dall’esperienza, soprattutto in termini di utilità di questi approcci per rendere effettiva la tutela giudiziale contro gli inadempimenti climatici di Stati e imprese, la qualificazione/quantificazione del danno conseguente agli eventi atmosferici derivanti dai cambiamenti climatici, l’inquadramento dei nessi causali climalteranti nel rispetto dei limiti legali di emissione, rappresentano una conseguenza di tale generalizzazione.

Recuperando il discrimine tracciato dal formante dottrinale sulla differenza tra “giustizia ambientale” e “giustizia climatica”, si dovrebbe concludere che il “contenzioso climatico”, una volta tematizzato, come formante giurisprudenziale in termini di “Strategy” perseguita dentro un qualsiasi conflitto “ambientale” o “sociale” locale, difficilmente coincide con le questioni di “giustizia”, che le emissioni climalteranti pongono a livello globale sul fronte del “Carbon Budget”, del “debito climatico” e della “intensità di carbonio”.

Probabilmente, rispetto a questo tertium comparationis, soltanto i casi “Urgenda” e “Juliana v. US” possono essere annoverati come esempi di “giustizia climatica”, nella misura in cui, in tali vicende, il giudice è stato chiamato a giudicare le condotte dello Stato rispetto alle obbligazioni climatiche assunte e agli effetti sul “Carbon Budget” per la tutela effettiva dei diritti dei ricorrenti.

4. Dalla “Strategy” alla tripla emergenza

Oggi, però, le questioni di “giustizia climatica” sono diventate urgenti e ineludibili, perché sono irrimediabilmente cambiati i presupposti di fatto che favoriscono o condizionano le “Litigation Strategies” in nome del clima.

Il mondo versa in una drammatica situazione di emergenza, ecosistemica71, climatica e fossile. È la prima volta che succede nella storia dei rapporti tra fatti e norme. Si tratta di una emergenza globale e locale al tempo stesso, irreversibile e scientificamente certa, che contribuisce ad aggravare e accelerare i meccanismi di Feedback Loop del sistema climatico e gli effetti sui c.d. “Tipping point” del sistema Terra.

La sintesi di questo dramma si riassume in non meno di dodici elementi di rottura degli equilibri tra azione umana e natura: 1) il superamento dei 350 ppm (parti per milione) di CO2 nell’atmosfera, ovvero la “soglia di sicurezza” per evitare rischi irreversibili per il genere umano75; 2) la condizione di “deficit ecologico” dell’intero pianeta, ovvero il consumo costante e crescente di beni, risorse e servizi eco sistemici in quantità, globale e locale, superiore alle capacità di rigenerazione della biosfera sulla spinta principale delle emissioni fossili76; 3) il superamento di tre dei nove Planetary Boundaries (precisamente: cambiamenti climatici antropogenici; riduzione antropogenica della biodiversità; stravolgimento del ciclo dell’azoto), scientificamente individuati come condizioni di sicurezza della stabilità del sistema Terra; 4) il Climate Breakdown, ossia l’incidenza dei fenomeni atmosferici estremi (dalle siccità alle alluvioni) sulla stabilità dei sistemi economici, sociali e politici, con effetti di disaggregazione delle relazioni tra società e ambiente nella previsione dei costi e dei danni economici e umani; 5) l’imminente esaurimento del “Carbon Budget” disponibile; 6) il raggiungimento di nove degli undici “Tipping Points” individuati dall’ONU, che costituiscono una minaccia esistenziale per la civiltà umana, non compensabile da alcuna analisi costi-benefici, nei cui confronti l’unica misura precauzionale possibile è quella del mantenimento delle temperature entro 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali, con la contestuale riduzione immediata e drastica delle emissioni fossili; 7) il “Production Gap” evidenziato dall’UNEP, da cui risulta che gli stessi impegni di contenimento delle emissioni da parte degli Stati, a parità di indici di crescita, non sono sufficienti al conseguimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015, connesso al “Circularity Gap”, ovvero alla circostanza che il tasso di circolarità dell’economia mondiale (che misura il rapporto fra l’impiego di materiali derivati o riciclati rispetto al totale di quelli impiegati) resta molto basso82; 8) l’effetto “Win-Lose” delle regole giuridiche di controllo dell’inquinamento separate da quelle sulla lotta ai cambiamenti climatici; 9) l’insufficienza delle misure esistenti di Carbon Tax al fine di disincentivare attività emissive inquinanti e climalteranti; 10) il profilarsi di rischi incalcolabili nella loro gravità (c.d. ipotesi del “Cigno verde”); 11) la constatazione della insufficienza delle mere “analisi di impatto ambientale” su singoli progetti e singoli luoghi come risposta efficace nella scala globale del problema climatico; 12) il doppio termine del 2030 e 2050, come prestazione di risultato parametrata al tempo (aver conseguito la stabilizzazione della temperatura a 1,5°C entro e non oltre il 2030, per conseguire la “Carbon Neutrality” entro e non oltre il 2050).

Questi elementi non sono semplici dati fattuali. Essi assumono importanzan giuridica proprio sul fronte del “contenzioso climatico”: definiscono i contenuti del “fatto notorio” spendibile in giudizio; corrispondono a quei “rischi di danni gravi o irreversibili”, su cui dispone l’art. 3 n. 3 della UNFCCC (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992) per attivare specifici meccanismi di azione e (valutazione delle) responsabilità; definiscono una situazione di “estremo pericolo” (Distress) con connessi obblighi inderogabili di protezione nei risultati e non solo nei mezzi.

Certo, le fonti del diritto climatico si occupano di cambiamento climatico, non di emergenza ecosistemica e climatica al tempo stesso. Questo però non vuol dire che i loro contenuti non siano in grado di dispiegare efficacemente i propri effetti davanti a questa inedita situazione. Al contrario: proprio a causa della insorta doppia emergenza ecosistemica e climatica, le fonti del diritto climatico dimostrano tutta la loro forza normativa: quella forza che l’uso strumentale del “contenzioso climatico” come “Litigation Strategy” non è stato in grado di valorizzare pienamente.

Lo si può comprendere rileggendo i documenti costitutivi della disciplina giuridica del clima, alla luce appunto della doppia emergenza, ecosistemica e climatica, denunciata dalla scienza.

Il clima in sé, a differenza dell’ambiente, non conosce una propria definizione giuridica, né a livello di diritto internazionale né a livello di diritto domestico e neppure a livello di formante giurisprudenziale. Tale silenzio, tuttavia, non realizza una lacuna, bensì un rinvio alla realtà dei fatti, in quanto il clima coincide con la più importante funzione ecosistemica di regolazione di tutti i processi di interazione tra i viventi, compresa la specie umana91. Esso, pertanto, è un fatto regolativo, presupposto al diritto. Su di esso, il diritto non può nulla.

Il clima, inoltre, è il risultato dell’equilibrio degli scambi di energia e di materia fra le componenti del sistema climatico: atmosfera, idrosfera, biosfera (incluso l’essere umano), criosfera e litosfera. Questo secondo elemento potrebbe costituire oggetto di disciplina giuridica. Da un lato, il sistema climatico, in quanto equilibrio globale, potrebbe essere inquadrato in uno dei quattro schemi di tutela ambientale previsti dal diritto internazionale (transfrontaliero, del patrimonio comune dell’umanità, dell’obbligo erga omnes, delle c.d. “Shared Areas” o “Shared Resourses”); dall’altro, in quanto rapporto di scambio di energia e materia, esso potrebbe essere inquadrato nell’ambito della disciplina di uno specifico rapporto giuridico.

Ma neppure tale rappresentazione trova riscontro nei formanti giuridici: il diritto climatico non si occupa né di tutela globale del sistema né di disciplina dello scambio energia e clima. Il meccanismo di c.d. scambio di emissioni (ETS) realizza una funzione regolativa di contenimento delle attività climalteranti, ma non persegue la tutela diretta di un determinato bene o di un determinato rapporto giuridico, né tantomeno assolve a funzioni di “giustizia”.

Al contrario, le fonti costitutive della disciplina giuridica sono riferite, tutte, esclusivamente al cambiamento climatico antropogenico: dalle Risoluzioni dell’ONU AG 43/53, 44/207 e 45/212, in cui si legge che il “Climate Change is a Common Concern of Humankind”, al Preambolo e ai primi tre articoli della UNFCCC.

I contenuti delle Risoluzioni ONU sono chiarissimi. Il termine “Common Concern” riveste un doppio significato: l’esistenza di un interesse comune all’intera umanità e non agli Stati come tali; la preoccupazione per la conservazione del bene racchiuso nell’interesse. La disposizione, pertanto, ripresa sia nell’UNFCCC che nell’Accordo di Parigi del 2015, contiene una norma di protezione. E il bene tutelato è il cambiamento climatico come dinamica di equilibrio interno al sistema.

Di conseguenza, tale protezione descrive un obbligo non esclusivamente interstatale,

perché di “Common Concern”, da adempiere nella dinamica dello spazio di ciascun singolo Stato.

I contenuti di disciplina di questa dinamica sono indicati dall’UNFCCC.

Anch’essa, più che definire, presuppone la conoscenza del clima e del sistema climatico nelle sue azioni e retroazioni e distingue il clima dal concetto di ambiente. Infatti, nel suo Preambolo si legge: «che i cambiamenti di clima del pianeta e i relativi effetti negativi costituiscono un motivo di preoccupazione per il genere umano»; «che le attività umane hanno notevolmente aumentato le concentrazioni atmosferiche di gas a effetto serra, e che questo aumento intensifica l’effetto serra naturale e che tale fenomeno provocherà in media un ulteriore riscaldamento della superficie della terra e dell’atmosfera e può avere un’influenza negativa sugli ecosistemi naturali e sul genere umano»; «che la previsione dei cambiamenti climatici è soggetta a molte incertezze, in particolare per quanto riguarda la collocazione nel tempo, la grandezza e le manifestazioni regionali»; «che gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse in rapporto alle loro politiche nel campo dell’ambiente e dello sviluppo, e hanno la responsabilità di garantire che le attività svolte nel territorio soggetto alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di regioni al di fuori della loro giurisdizione nazionale».

Clima e cambiamento climatico sono dunque confermati fatti presupposti al diritto (fatti detentori di una forza che si impone ab externo al diritto, in termini di Adjudicative Facts96) diversi dal generico concetto di “ambiente”97. In tal senso,ì depongono anche le disposizioni sia dell’art. 1 della UNFCC (che non per caso si apre con la formula “effetti negativi dei cambiamenti climatici” e solo dopo ricorre alla definizione di “cambiamenti climatici”, cui si aggancia quella non di “clima” bensì di “sistema climatico”, a sua volta collegato al concetto – anch’esso presupposto al diritto – di “interazioni”, separato dal fenomeno – qualificato invece dal diritto – delle “emissioni”) sia dell’art. 191 n. 1 del TFUE, dove la parola “ambiente” è separata dalla locuzione “combattere i cambiamenti climatici”.

Ora, tale struttura nomologica non è di poco conto: essa riflette, conferma e rispetta la qualificazione scientifica del clima come “funzione ecosistemica di regolazione”: il clima e il sistema climatico regolano la vita sulla terra, compresa quella umana, sicché possono essere solo presupposti dal diritto o definiti in base all’osservazione scientifica, perché non è il diritto a inventarli o a delimitarli (come invece è avvenuto con la figurazione giuridica dell’ambiente).

Com’è noto, quando il diritto definisce solo alcuni fenomeni e ne presuppone altri e le stesse definizioni sono di matrice scientifica (come si è visto, nella UFCCC, il diritto presuppone le “interazioni” ma definisce il “sistema climatico” e non il “clima”), allora il diritto rinvia, per la sua completa ed effettiva disciplina della realtà, ad altre sfere di acquisizione della realtà, che possono essere o di “derivazione sociale” (si pensi alle formule contenute in Costituzione, come quella italiana di “buon costume”98) o di evoluzione delle conoscenze scientifiche sulla realtà. Quest’ultima prospettiva, a sua volta, prelude a diversi scenari che, nel testo della UNFCCC, sono almeno tre: affidamento alla scienza di nozioni e definizioni pre-giuridiche su determinate azioni (è il caso del riferimento normativo alle “interazioni” e alle “emissioni”99); presupposizione di una realtà scientificamente acquisita nei suoi elementi costitutivi e di funzionamento (il concetto di clima, omesso dalle disposizioni della Convenzione); richiamo a fenomeni naturali preesistenti al diritto, che necessitano di una spiegazione scientifica di cui il diritto si appropria con le sue disposizioni normative definitorie (si tratta delle disposizioni definitorie del “sistema climatico”, degli “effetti negativi dei cambiamenti climatici”, dei “cambiamenti climatici”). In tutte e tre le ipotesi, il diritto non solo si affida a “fatti di conoscenza” scientifica, come presupposto o spiegazione della norma, ma opera anche una sorta di “riserva di scienza”, che condiziona, orienta e limita le discrezionalità decisionali e interpretative, e di “rinvio mobile”, che rimette appunto alla scienza la sussunzione dei fatti nei contenuti di significato delle disposizioni giuridiche.

La conclusione trova conferma in due ulteriori strutture normative della UNFCCC.

La prima riguarda il principio di “precauzione climatica”, esplicitamente indicato dall’art. 3 n. 3 della UNFCCC e ben diverso, proprio per quanto sin qui sintetizzato, dalla precauzione generica di cui parlano disposizioni giuridiche di altri documenti normativi (compresi quelli sull’“ambiente”104). Ecco che cosa si legge all’art. 3 n. 3 UNFCCC.

Conviene riprodurne il testo: «Le Parti devono adottare misure precauzionali per rilevare in anticipo, prevenire o ridurre al minimo le cause dei cambiamenti climatici e per mitigarne gli effetti negativi. Qualora esistano rischi di danni gravi o irreversibili, la mancanza di un’assoluta certezza scientifica non deve essere addotta come pretesto per rinviare l’adozione di tali misure, tenendo presente che le politiche e i provvedimenti necessari per far fronte ai cambiamenti climatici devono essere il più possibile efficaci in rapporto ai costi, in modo da garantire vantaggi mondiali al più basso costo possibile». Si tratta di una disposizione talmente dettagliata da risultare non solo “self executing”, ma soprattutto “deontologica” (indicando il “metodo” e gli “obiettivi” da perseguire: metodi e obiettivi Science based, ossia fondati sulla “riserva di scienza”e il “rinvio alla scienza”), sia per lo Stato (“politiche e provvedimenti necessari”) che per le connesse “misure”.

Ancora più significativa è la seconda specificità, che si desume sempre dai presupposti e dalle definizioni della UNFCCC, con riguardo al cambiamento climatico. Ecco che cosa si legge all’art. 2 n. 2: (definizione di) «cambiamenti climatici: qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane, il quale altera la composizione dell’atmosfera mondiale e si aggiunge alla variabilità naturale del clima osservata in periodi di tempo comparabili». Sul piano fattuale, da esso si comprende che: a) il diritto non si occupa del “fatto” cambiamento climatico naturale, bensì del “fatto” “qualsiasi cambiamento di clima” antropogenico (che “si aggiunge alla variabilità naturale”);

b) il diritto non definisce in base a che cosa il “fatto” cambiamento sia attribuibile “direttamente o indirettamente” all’azione umana. Di conseguenza, sul piano giuridico, si deve concludere che: la dinamica del cambiamento climatico assurge a oggetto giuridico di disciplina solo sul fronte del “rapporto giuridico climalterante” tra attività umane e composizione del sistema climatico, da tali attività “direttamente o indirettamente” “alterato”; tale “alterazione” non è definita dal diritto ma riservata alla scienza (la “riserva di scienza” indica quando e come si “altera” il cambiamento climatico attraverso l’azione umana).

All’interno della realtà presupposta (clima) e disciplinata dal diritto nella sola dinamica del rapporto giuridico umano di alterazione, Preambolo e art. 3 UNFCCC tracciano l’eziologia tra azioni umane-cambiamento-alterazione, su un doppio livello: come causalità giuridicamente presunta in modo assoluto, in quanto il Preambolo normativizza alcuni elementi della dinamica dei cambiamenti climatici antropogenici, presumendo appunto de iure che i cambiamenti climatici producono effetti negativi, sui quali l’azione umana ha notevolmente inciso aumentando la concentrazione dei gas serra, intensificando effetti naturali e provocando ulteriore riscaldamento terrestre con possibili influenze negative su ambiente e genere umano; come causalità materiale, affidata alle evidenze scientifiche, dato che l’art.3 affida, invece, alla scienza la identificazione dei “rischi di danni gravi o irreversibili” da scongiurare e l’analisi dei costi e dei “vantaggi mondiali” più efficace (“mondiali”, quindi per tutti, non solo per alcuni, in termini di solidarietà esterna e interna a ciascuno Stato). Su tale ultima causalità materiale, poi, si specifica che l’incertezza delle previsioni scientifiche (richiamata nel Preambolo non sull’an, bensì solo sul quando – collocazione nel tempo sul quantum – la grandezza e sull’ubi – le manifestazioni regionali) non ne inficia la rilevanza ai fini delle decisioni, in virtù appunto della disposizione speciale di “precauzione climatica”, contenuta sempre nell’art. 3 n. 3.

Infine, l’obiettivo che il diritto si prefigge con questo schema nomologico è esplicitato dagli artt. 2 e 3 n. 1 dell’UNFCCC. Si tratta di un triplice scopo interconnesso e consequenziale: «stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera» (art. 2); [affinché sia] «esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico» (art. 2); [per] «proteggereil sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni» (art. 3). Si tratta dunque di un fine di “stabilizzazione” dei gas serra (sistema climatico stabilizzato nelle concentrazioni di tutti i gas serra, non solo della CO2), di “sicurezza” sull’antropogenesi climalterante (escludere “qualsiasi pericolosa interferenza” delle attività umane sul sistema climatico) e di “protezione” del sistema climatico “a beneficio” delle presenti e future generazioni (dato che il sistema climatico comprende la biosfera e dunque anche gli esseri viventi, compreso l’umano). Con questa conclusione, lo schema del duplice significato del “Common Concern” risulta confermato. In poche parole: solo stabilizzando c’è sicurezza e solo con la sicurezza c’è la protezione (triplice obiettivo interconnesso e consequenziale) del sistema climatico: stabilizzazione, sicurezza e protezione, a loro volta, fondano i “benefici” per le presenti e future generazioni.

Il diritto sul “rapporto giuridico climalterante” è dunque un sistema normativo di prevenzione dalle minacce del cambiamento climatico, a benefico della sicurezza umana presente e futura.

Il cerchio così si chiude: l’elemento deducibile in giudizio, per attivare un effettivo “contenzioso climatico” a tutela esclusiva del diritto alla stabilizzazione e sicurezza del sistema climatico, al di là di qualsiasi altro interesse, dovrebbe partire da qui, dalle Risoluzioni ONU e dai primi tre articoli della UNFCCC, in quanto fonti costitutive del “rapporto giuridico climalterante” attività umana/cambiamento climatico.

Del resto, da questo “rapporto giuridico climalterante” derivano le obbligazioni climatiche tanto degli Stati quanto degli operatori privati (dato che l’UNFCCC non parla di funzioni o poteri statali, ma di “attività umane”). Si è visto che l’art. 3 n. 3 dalle UNFCCC imprime una specifica deontologia (indicando il “metodo” e gli “obiettivi” da perseguire, fondati sulla “riserva di scienza”). Insieme al Preambolo e all’art. 2, poi, l’UNFCCC definisce tutti gli elementi costitutivi della obbligazione climatica. Essa ha per oggetto la regolazione del “rapporto giuridico climalterante” tra attività umane-cambiamenti del clima-composizione dell’atmosfera mondiale, da disciplinare attraverso condotte di rispetto della “riserva di scienza” in tema di “interazioni” del sistema climatico, identificazione delle azioni umane che alterano la composizione dell’atmosfera mondiale “direttamente o indirettamente”, definizione delle “misure precauzionali” da adottare, qualificazione dei “rischi di danni gravi o irreversibili” da scongiurare, definizione dei costi e dei “vantaggi mondiali” più efficaci, sia in termini di mezzi (“rilevare in anticipo, prevenire o ridurre al minimo le cause dei cambiamenti climatici”) che di risultato (la conseguita “mitigazione”), nel triplice fine cui volgere tutte le decisioni, fine interconnesso e consequenziale (stabilizzazione della concentrazione di tutti i gas a effetto serra nella sicurezza della esclusione di “qualsiasi pericolosa” interferenza umana e per la protezione del sistema climatico), “a beneficio” della presente e delle future generazioni.

Il riferimento finale al “beneficio per la presente e le future generazioni” identifica la clausola di chiusura delle regole giuridiche sul “rapporto giuridico climalterante” e sulla obbligazione climatica: stabilizzare nella sicurezza per garantire benefici alle presenti e future generazioni. La pretesa di questo beneficio identifica la possibilità giuridica da far valere in giudizio contro “qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane”.

Il che comporta, come conclusione, che il “rapporto giuridico climalterante” disciplinato dal diritto non è un rapporto solo tra Stati o tra Stati e cittadini, ma prima di tutto un rapporto tra azioni umane che, alterando le componenti dell’atmosfera, ledono generazioni presenti e future, ossia ledono diritti umani.

Con il recentissimo accertamento scientifico, sostanzialmente unanime, della doppia emergenza ecosistemica e climatica, nella composizione dei suoi elementi costitutivi assurti a fatti notori, la dinamica di questo “rapporto giuridico climalterante” è giunta al suo estremo.

I “rischi di danni gravi e irreparabili” sono resi inconfutabili nelle loro caratteristiche e interazioni sussunte alle leggi scientifiche.

Siamo addirittura all’ipotesi del “Cigno verde”, prima richiamata.

Le obbligazioni climatiche, di conseguenza, possono essere fatte valere in giudizio come “contenzioso climatico” che renda “giustizia” di questo estremo pericolo, affinché le presenti e future generazioni possano ancora contare sui “benefici” di un clima stabilizzato e sicuro.

5. Dalla “tragedia dei beni comuni” alla “tragedia dell’orizzonte”

Ecco allora che, nello stato di emergenza ecosistemica e climatica in atto, “giustizia climatica” e “contenzioso climatico” scoprono una ineluttabile convergenza: non come “Litigation Strategy”, strumentale a qualsiasi interesse, bensì come corrispondenza di tutela urgente dei bisogni primari di sopravvivenza.

In che modo tutelarsi di fronte all’emergenza ecosistemica e climatica?

Le “Climate Change Litigation Strategies” sono state congegnate come rivendicazione di qualsiasi pretesa, a qualsiasi titolo connessa alle emissioni climalteranti. Ragionando in  termini di Tort o di Public Trust, esse hanno assunto il clima come un “bene” nei cui riguardi rivendicare diritti e interessi, come si è visto della più diversa portata. Non a caso, intorno alla loro esperienza è maturata anche la narrazione del clima come “bene comune” o “Global Common”, nei cui riguardi affrontare la classica “tragedia” dell’utilizzo comune senza danni reciproci.

Tuttavia, il clima non è affatto un oggetto di utilizzo. Non è una cosa o un Good nel significato della semantica giuridica di Civil e Common Law. Al massimo, lo si potrebbe inquadrare tra i “frutti naturali” della “cosa” sistema Terra (ovvero quello che proviene direttamente «da una cosa, vi concorra o meno l’opera dell’uomo», come recita l’art. 820 del Codice civile italiano). Tuttavia, come constatato, la UNFCC non ne fa menzione. Manca dunque un formante normativo che legittimi tale ricostruzione del formante dottrinale. Né la comparazione del formante giurisprudenziale consegna certezze sul tema.

Inoltre il clima, a differenza dell’atmosfera, non identifica uno spazio di immissione (l’involucro gassoso), bensì una proiezione di lungo periodo dello stato medio del tempo atmosferico a varie scale spaziali (biosferica, locale, regionale, nazionale, continentale) in cui si inseriscono le emissioni, comprensive anche di quelle di derivazione umana.

Il dato non è di poco conto: la variabile determinante del clima non è lo spazio (come “cosa”), in cui si immette l’azione umana, ma la proiezione temporale, comprensiva dell’immissione. Pertanto, è con la variabile temporale che il diritto climatico deve fare i conti. Ecco perché la “tragedia dei beni comuni” è stata correttamente convertita in “tragedia dell’orizzonte” temporale.

Che fare di fronte a una situazione di accelerazione dei processi temporali del clima, causata dalle immissioni dell’azione umana? Quali obbligazioni far valere? Quali diritti tutelare? Il “contenzioso climatico”, ad oggi sperimentato e censito dalla dottrina, non si è posto questi interrogativi, permanendo nelle riscontrate ambiguità di comprensione dei suoi caratteri distintivi e della sua funzione di “giustizia”.

Ma ora che siamo entrati nella emergenza ecosistemica e climatica, non possiamo sottrarci alle risposte. Quella in corso è una emergenza duplice, interconnessa e purtroppo irreversibile, urgente nei tempi (entro il 2030 per il 2050), ineluttabile nei modi. Essa è stata pure formalmente dichiarata da innumerevoli autorità pubbliche in tutte le parti del mondo, dagli Stati ai municipi allo stesso Parlamento europeo117, al fine di tracciare parametri e direttive di risposta non per eliminarla, ma per scongiurarne le peggiori conseguenze a partire dal 2030.

Essa non produce danni “ambientali” nel significato localizzato e restrittivo, definito per esempio dalla normativa europea. Essa rende permanenti ed evidenti danni “climatici” privativi dei “benefici” della presente e delle future generazioni.

In tale ottica, l’emergenza in atto solleva inedite questioni di “giustizia climatica” (intra- e inter-generazionale) che non possono non trovare anche nel “contenzioso climatico” un possibile sbocco di reazione: contro la negligenza, pubblica o privata, nell’evitare che i rischi e le situazioni costitutive dell’emergenza aumentino e si diffondano ulteriormente; per richiedere l’uso della scienza in funzione della prescrittività speciale contenuta nella UNFCC e del principio di precauzione quale obbligo di risultato nella prevenzione, e non meramente di mezzi, parametrato ai tempi di “salvezza” dalle peggiori conseguenze della emergenza in atto; per espandere i diritti umani alla dimensione della pretesa della stabilizzazione climatica e della sicurezza nella protezione contri i rischi del mancato conseguimento dei tempi di azione e risultato.

In questo scenario, formanti dottrinali e giurisprudenziali avranno da produrre sempre più incisivi elementi di comprensione del difficile destino dei rapporti tra sopravvivenza umana e sistema Terra, magari inaugurando ulteriori declinazioni della “giustizia climatica”.

Michele Carducci

Centro di Ricerca Euro Americano

sulle Politiche Costituzionali

Università del Salento

michele.carducci@unisalento.it

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